Col doppio turno alla francese diventeremmo il primo Paese d’Europa
Tra Ulivo e Quirinale le confessioni di Prodi “Riavvicinare la gente e darle la scelta vera”
Intervista di Pietro Visconti a Romano Prodi su Libertà del 16 dicembre 2021
“Ma sì, mi ha fatto piacere essere chiamato a volte per togliere le castagne dal fuoco, e in qualche caso di esserci anche riuscito”. Romano Prodi ha 82 anni e la marcia (non solo metaforica) di chi ne ha una decina in meno. Si sente dalla voce al telefono durante la conversazione riversata in quest’intervista. Si vede dalla sua agenda: di recente, aereo per Dubai insieme alla delegazione dell’Emilia Romagna e tre seminari in due giorni. Ma era venuto il momento di fare anche un viaggio intorno a se stesso, un po’ per gusto autobiografico e un po’ per guardare un’altra volta all’Italia e al mondo, e la spinta gliel’ha data Marco Ascione, giornalista di vista lunga del “Corriere”. Ecco dunque “Strana vita, la mia” (Solferino editore), che domani porta l’ex premier qui a Piacenza per una serata prevedibilmente molto amarcord, ma certamente agganciata all’oggi. Intanto proviamo noi, in questo colloquio su “Libertà”, a muoverci tra le rievocazioni del libro e i nodi sul tavolo.
Presidente Prodi, “strana vita” in che senso, la sua? Vero che per “strana” va inteso in sostanza fortunata?
“Perché quasi tutte le cose importanti che ho fatto sono avvenute per caso. A iniziare da quando sono diventato ministro per la prima volta (1978, governo Andreotti – ndr). Ero un tecnico affermato, ma lontano dall’arena politica. Mi chiamarono perché si era creato uno dei tanti grovigli tra partiti e correnti. E così andò pure all’Iri (il colosso delle aziende di Stato – ndr) dove c’era un problema gigantesco di rapporti tra politica e economia. Ma la stessa cosa si è poi ripetuta in Europa. Si era dimesso Santer, il lussemburghese presidente della Commissione, e il vertice dell’Unione era finito dentro un pasticcio, paralizzato. Mi chiamarono per togliere le castagne dal fuoco, appunto…”.
Però non c’è solo casualità. L’Ulivo non ha chiamato lei, è lei che ha chiamato l’Ulivo, anzi l’ha creato.
“Oh sì!” e qui Prodi sembra ringiovanire non di dieci, ma di trent’anni. “L’Ulivo fu tutt’altro che casuale. Era un disegno chiaro, forte, mosso dall’idea di mettere insieme i riformisti dei vari filoni della storia politica italiana per sfidare, in un sistema semplificato e moderno, lo schieramento dei conservatori”.
Appunto. Il suo nome è sinonimo di una speranza politica che prese forma nel 1996, si riaccese nel 2006, e che ha poi generato ri-tentativi continui, ma sempre più scomposti. Perché è andata a finire così male?
“Intanto mi lasci dire che era cominciata benissimo. Quello del ’96 era un gran governo, impegnato a rinnovare l’Italia. Avevamo alle spalle la spinta di un lungo lavoro in giro per città e paesi. Se lo ricorda il pulman dell’Ulivo vero? Avevamo guardato in faccia decine di migliaia di persone, ci avevamo parlato, si era creata una connessione tra volontà della politica e aspettative della gente”.
Eppure non bastò a vincere la sfida della continuità. Perché?
“Essenzialmente perché nei partiti prevalse un interesse dettato da una logica tutta interna, rispetto all’esigenza di garantire quella stabilità e durata che sono il requisito primo di un possibile buon governo. Se cambiano troppe facce in poco tempo, si costruisce poco con gli interlocutori che contano”.
Sembra un mondo lontano mezzo secolo, non 25 anni. Ora abbiamo davanti un panorama frantumato, con identità spesso pallide e confuse. Qual è, se c’è, il rimedio?
“Non c’è da inventare molto. Bisogna fare la stessa cosa di quella stagione dell’Ulivo, ricreare un colloquio con le persone, dare un minimo di struttura di base ai partiti. E’ incredibile il deserto tra cittadini e politica. Poi serve una mossa rinnovatrice che riguardi le regole del gioco”.
E cioè?
“Cambiare la legge elettorale per introdurre un maggioritario serio. Sono convinto di questo: con un sistema alla francese diventeremmo il primo Paese d’Europa”.
L’Ulivo ha fatto sperare una metà d’Italia e poi si è inaridito. Quando ci ripensa, lei prova la soddisfazione di chi ha piantato quell’albero o la frustrazione del fallimento?
“Più la soddisfazione della delusione. Certo, aggiungo subito: che peccato, che occasione persa”.
Veniamo al terzo millennio. C’è un dato nell’aria che viene ritenuto scontato: se si va a votare, l’Italia se la prendono Meloni e Salvini.
“Probabile sì, ma di scontato in politica non c’è niente”.
Il centrosinistra che cosa può e deve fare per cambiare verso al vento?
“Darsi obiettivi di centrosinistra. Puntare sul sociale. Le priorità sono: scuola di qualità, difesa del sistema sanitario, equità fiscale e lotta alla criminalità”.
Detto che la Costituzione è formalmente rispettata, da una decina d’anni l’Italia non ha premier sostenuti dal consenso elettorale. O sono tecnici o sono il frutto di manovre parlamentari. Ce ne possiamo permettere altri così o rischiamo che il solco tra popolo e istituzioni diventi troppo profondo?
“Il rischio c’è. Democrazia significa potere del popolo. Bisogna che la gente abbia la parola e senta che essa pesi. I modi perché ciò accada sono tanti, ma bisogna riavvicinare governanti e governati”.
Prima del 2023, anno delle elezioni politiche, c’è gennaio 2022, tempo del Quirinale. Lei si considera fuorigioco, eppure tanti italiani la vedrebbero volentieri presidente della Repubblica.
“La questione è in fondo semplice. E’ molto difficile considerare papabile uno come me che ha guidato uno schieramento in modo così netto e non ha mai cambiato le sue posizioni. In più ho un’età che si può considerare veneranda”.
Analisi inoppugnabile. E dunque cosa pensa che accadrà? Si aprirà una parentesi di concordia sul ring della politica per eleggere una figura largamente condivisa, oppure c’è da temere una prova di forza che lacererebbe le istituzioni?
“Prevedere è impossibile. Mi auguro, e spero, che la convergenza si trovi. Bisogna lasciar passare qualche settimana, ascoltare con attenzione quel che ci dirà Mattarella la sera del 31 dicembre. Ho fiducia che si trovi un nome rispettato da tutti “.
Presidente Prodi, nel libro lei parla molto e con passione delle sue radici familiari e territoriali. Perché considera importante Bologna e l’Emilia dentro una vita da cosmopolita?
“Sono nato a Scandiano, ho vissuto a Reggio Emilia e da 53 anni abito a Bologna nella stessa casa: ho voluto tenere a qui la famiglia e che i figli studiassero in città prima di andare fuori. Avere un punto saldo di riferimento aiuta a tenere i piedi per terra: resti sempre quello di prima, non il potente o il presunto tale. La prima lezione in materia me l’ha data mia madre Enrica. Lo racconto nel libro…”.
Cosa accadde?
“Ero diventato ministro. Torno a casa. Lei mi fa, in dialetto: oh, adesso che sei ministro, vai ben giù a portare il pattume…”.
L’Emilia è nella serie A dell’Italia: per qualità di vita, forza economica, modernità sociale. Una buona parte dell’Italia è lontana da questi standard: dal decoro urbano alle condizioni degli edifici scolastici. E non sembra nemmeno che la questione sia più tanto all’ordine del giorno. Ne soffre?
“Non è nemmeno esatto dire che la questione è sottovalutata. Semplicemente, l’Italia l’ha messa sotto il tappeto. Sottosviluppo delle aree meridionali e contro potere della criminalità sono due macigni. Il terzo è l’evasione fiscale. Non matematicamente connessa alla criminalità, però spesso il collegamento c’è”.
Torniamo all’Emilia e al suo patrimonio politico. Con lei domani sera sarà al tavolo Pierluigi Bersani, piacentino, anche lui simbolo di quell’Ulivo non cresciuto abbastanza. Che cosa vi accomuna?
“Prima di tutto Bersani è occhi e orecchie aperti sui bisogni da interpretare. E impegno a trovare soluzioni. L’altro tratto che ci avvicina è non fare mai di un ostacolo, sulla strada dei nostri progetti, una dramma personale. Piuttosto badare alle cose concrete. Definire ‘lenzuolate’ le liberalizzazioni, non fu un’ironia inutile . Era un modo per dire alla gente: vogliamo risolvere qualche vostro problema ogni giorno”.
Il governo in cui lei era presidente e Bersani ministro riuscì, tra l’altro, nel miracolo di chiudere qualche anno di bilancio con un avanzo primario, e cioè più entrate che spese, al netto degli interessi sull’enorme debito. Ora di debito pubblico quasi non si parla più. Il cataclisma Covid ha fatto saltare i vincoli dei Trattati che lei peraltro a suo tempo sospettò di ‘stupidità’. Siamo nella stagione del ‘debito per motivi di forza maggiore’. Ma non potrà durare per sempre.
“Il tema del debito pubblico resta un grosso problema. Tempi e modalità sono stati cambiati dall’epidemia. Ma l’obiettivo di governare il debito non è eludibile ed è un dovere ricordarlo. Concorrerà a gestirlo lo spirito di nuova solidarietà europea che si è fatto largo nel dramma di questi due anni”.
Il virus, appunto. Affrontarlo ‘all’italiana’ si può dire che stavolta è stato un modello?
“Modello starei attento a dirlo. Però sicuramente siamo tra i Paesi virtuosi. Ci siamo comportati con buon senso. Confesso: fin dall’inizio ho pensato che fosse necessario obbligare alla vaccinazione. Ma comprendo le difficoltà che hanno consigliato di non prendere questa decisione drastica. In ogni caso dobbiamo essere grati al vaccino che ci ha evitato una apocalisse come fu con la Spagnola. Abbiamo visto da vicino la fragilità della condizione umana. Parimenti, dobbiamo avere fiducia nella scienza”.
Infine, presidente Prodi: domani sera per lei è un debutto a Piacenza, oppure è venuto qui altre volte?
“Sono stato da voi due volte, ricordo che una delle occasioni fu un’iniziativa del mondo cattolico. Era molto molto tempo fa. Di Piacenza conosco la forte attrazione economica verso Milano e la condizione di ‘emilianità’ di confine che può dare vantaggi, non necessariamente solo problemi. E infatti non a caso la logistica ha lì da voi un suo caposaldo. Essere a un incrocio offre opportunità. Ci sono certamente anche risvolti critici, come il consumo di suolo e in particolare di terre fertili. Governare bene i territori è una grande sfida. In Emilia riguarda non soltanto la pianura ma anche le aree di montagna in gran parte gravemente spopolate. Ce n’è sempre da fare, per noi riformisti delle cose concrete”.