Gli studenti sono abbandonati a se stessi. Rilanciare l’Università per rilanciare l’Europa
Prodi: “Rilanciamo Erasmus per rilanciare l’Europa”
Intervista di Marco Castelnuovo a Romano Prodi su La Stampa del 31 maggio 2012
Presidente Prodi, l’Università di Bologna ha saputo “guardare avanti e indietro”, come diceva Petrarca, coniugando la potente storia alle spalle con una modernità che la pone all’avanguardia nei ranking mondiali. L’Università di Bologna è sede del museo europeo dello studente: all’Archiginnasio sono conservati gli stemmi, i simboli del passaggio degli studenti di tutta Europa. Lo spirito di questo crogiuolo di culture è restato a Bologna. Ma come fare per esportarlo ulteriormente?
Gli stemmi degli studenti che adornano per migliaia di metri quadrati le pareti e le volte dell’antica sede dell’Università di Bologna sono il segno dell’autentica universalità dell’Università stessa. Lo stesso spirito è rimasto oggi ma le università dell’Europa continentale non sono più simbolo di universalità ne riguardo alla distribuzione territoriale degli studenti né di quella dei professori.
La tradizione dell’universalità è stata per troppo tempo interrotta dalle guerre, dai nazionalismi e dalle separazioni che hanno in passato dilaniato l’Europa. Hanno fatto eccezione le grandi università britanniche mentre, nel continente, periodi di apertura internazionale si sono alternati a periodi di chiusura, in stretto legame con gli alti e bassi della politica. Deve essere chiaro che il “crogiuolo della cultura” può esistere solo se vi è una vera e concreta circolazione di professori. Vera e concreta dal punto di vista qualitativo e quantitativo. In Italia limiti finanziari, giuridici e burocratici impediscono che questo avvenga in misura sufficiente anche se alcune università, come quella di Bologna, tentano di porre rimedio a questo stato di cose con numerosi progetti. Bisogna in ogni caso ricordare che lo spirito di universalità cammina non solo sui binari delle istituzioni ma anche sulle spalle delle persone. La limitatezza delle risorse non impedisce singoli legami con le altre parti del mondo ma ne limita enormemente l’ampiezza e l’efficacia. Non solo le percentuali del Prodotto Nazionale Lordo dedicate all’università sono in Italia trascurabili ma il costo dell’università stessa grava in misura preponderante solo sulle spalle dello Stato. Davvero secondario è l’impegno delle strutture economiche e finanziarie, mentre sostanzialmente inesistente è la raccolta dei fondi tra gli “alumni” (cioè gli ex studenti) come invece avviene in tanti altri paesi. Tutto questo spinge ovviamente nella direzione di un’università molto più burocratica e standardizzata di quella che sarebbe necessaria per interpretare il mondo d’oggi.
Come pensa che il progetto Erasmus, che compie quest’anno 25 anni, possa espandersi ulteriormente?
Nell’ultimo periodo della mia presidenza della Commissione Europea ho personalmente presentato un progetto per la moltiplicazione dei fondi Erasmus, nella convinzione che questo fosse uno dei pochi strumenti positivi per costruire uno spirito europeo nelle nuove generazioni e per aumentare la necessaria conoscenza reciproca. La risposta degli Stati membri (a cominciare dai più ricchi) fu che non un euro aggiuntivo doveva essere dedicato al progetto Erasmus. Questa incredibile posizione fu doverosamente giustificata da motivi puramente finanziari ma, nella discussione, emergeva chiaramente la convinta posizione dei governi di tenere il controllo del sistema universitario permanente nelle proprie mani. Non vedo al momento attuale un cambiamento di direzione in questa politica, soprattutto da parte dei governi che ritengono che l’Unione Europea non possa progredire per la mancanza di un “demos”, cioè di un vero “spirito” europeo. Come può nascere questo “spirito” comune se non si “mescolano” fra di loro i giovani?
Ho visto i prezzi delle stanze per studente a Bologna e le ho trovate molto care. Così dappertutto: Torino, Milano, Roma. Aldilà delle tasse universitarie, vivere in una città da fuori sede sembra essere sempre più difficile. I campus universitari, almeno in Italia, sono impensabili?
A mio parere non esiste una vera università se gli studenti non vivono insieme nei collegi e in un ambiente comune, che viene abitualmente definito come “campus” ma che può essere separato dalla società che le sta attorno o profondamente immerso nella comunità urbana. In Italia ci sono “collegi” che funzionano perfettamente (ed io sono stato fortunato a poterne godere) ma sono pochi, anzi pochissimi. In genere gli studenti sono abbandonati a se stessi, spesso nelle mani di piccoli voraci speculatori che vivono alle loro spalle. Il rimedio è semplice e non vi è nemmeno bisogno di illustrarlo: basta ricordare che occorrono risorse finanziarie o persone dedicate ma, soprattutto, occorre che il problema assuma la priorità che merita.
Lei pensa che sia opportuno un ministero europeo per l’Università o crede che la ricchezza dell’Europa debba restare un arcipelago come in fondo è oggi?
Non penso che nell’attuale fase storica un tale ministero sia proponibile, se per ministero intendiamo un’autorità dedicata alla regolamentazione e alla supervisione unificata del sistema universitario europeo. Non solo mi sembra improponibile ma anche pericoloso per mantenere l’autonomia e la libertà del mondo universitario. Una struttura per stabilire alcune regole comuni per garantire una comparabile qualità degli insegnamenti e un’effettiva mobilità di studenti e professori è tuttavia necessaria. Così come è indispensabile un maggiore sforzo per promuovere esperienze comuni di insegnamento e progetti comuni di ricerca.
Come coniugare il rigore con le risorse che servirebbero per costruire scuole di eccellenza? Crede sia più opportuno avere meno università ma più prestigiose, capaci di tenere testa alle sfide globali oppure atenei che alzino la media complessiva del livello culturale del Paese anche abbassando la qualità e rischiando così di far fuggire i cervelli?
Nella società moderna abbiamo bisogno di raggiungere tutti questi obiettivi. Abbiamo prima di tutto bisogno di elevare il livello culturale generale, soprattutto in tutte le professioni di carattere applicativo che condizionano lo sviluppo futuro di un paese. Così come abbiamo bisogno di una elite capace di sfondare le frontiere del sapere e di fornire alla società una classe dirigenti di livello elevato. Mettere in contraddizioni questi due obiettivi è semplicemente assurdo, anche si è ovvio che la funzione della “elite” richiede necessariamente un superiore livello di cooperazione soprannazionale. Non solo nel campo scientifico ma in tutti i settori, dalla ricerca avanzata alla formazione di leaders politici di elevata qualità.
Di fronte alle strutture che lei ha trovato in Cina, cosa esporterebbe delle nostre Università? E cosa importerebbe invece?
La tensione per raggiungere il più elevato livello di eccellenze da parte dei professori è un impegno totale allo studio da parte degli studenti: queste sono le caratteristiche generalmente presenti nelle università di “elite” cinesi. Esportarle non è facile perché di solito appartengono a un paese e a un popolo coralmente dedicato all’ascesa personale e all’affermazione collettiva. Non mi sembra oggi il nostro caso!! Per quanto posso vedere nei ridotti aspetti della mia esperienza, le università cinesi sono totalmente dedicate ad assorbire i modelli organizzativi e i metodi di insegnamento o di ricerca delle università occidentali. I cinesi sanno quindi benissimo cosa debbono importare e sanno come tradurre e immergere tutto questo nella grande tradizione culturale cinese.
Come l’Europa può intercettare il crescente bisogno di cultura e educazione che arriva dalla Cina?
Prima di tutto questo bisogno è soprattutto attirato dalle università americane. Nonostante le frequenti “irritazioni reciproche” il fascino della potenza e del “softpower” americano appare assai superiore rispetto al fascino dell’Europa. L’ammirazione per il passato europeo non è in grado di bilanciare l’attrazione esercitata dal “presente” americano. La lingua gioca inoltre un ruolo fondamentale ed è anche per questo che la Gran Bretagna esercita un’attrazione particolare anche senza dedicare a questo scopo risorse esorbitanti per attrarre studenti cinesi. Anzi traendone complessivamente un notevole profitto. Sono quindi ovvi i rimedi che si debbono attuare per intercettare questo “crescente bisogno di cultura” che arriva dalla Cina. Costruire l’Europa con un conseguente “softpower” e agire di conseguenza.
Cosa pensa del sistema educativo europeo? E’ adeguato? Va mischiato (penso agli asili francesi, alla scuola primaria italiana, alla secondaria tedesca…) o è più facile “mischiare” i ragazzi europei?
I sistemi non vanno “mischiati” ma vanno “confrontati” per poterne utilizzare gli aspetti più positivi. I ragazzi europei vanno invece “mischiati” il più possibile. Molto più di quanto non avviene oggi.
Secondo lei il diritto allo studio è garantito in Europa?
Analizzando i dati statistici disponibili mi sembra che l’“ascensore sociale” salga molto lentamente nelle nostre università. Speriamo che almeno le scale funzionino adeguatamente. Le scale per salire: non solo le scale di fuga da usare in caso di pericolo (cioè di disoccupazione).