I nuovi confini rendono prioritarie le riforme istituzionali dell’Europa
«Nei negoziati con Berna l’UE non deve avere fretta»
L’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi analizza le attuali sfide dei Ventisette
Intervista di Osvaldo Migotto sul Corriere del Ticino del 16 dicembre 2020
Professor Prodi, l’UE nonostante le difficoltà del momento porta avanti la politica di allargamento. Non sarebbe meglio ripiegare su accordi di partenariato, visto che il processo decisionale tra i 27 già oggi appare lungo e complesso?
“Sono del parere opposto. I Paesi coinvolti nel processo di allargamento sono piccoli e costituiscono circa l’1% del PIL europeo, per cui non sono un problema dal punto di vista economico. Dal punto di vista politico dobbiamo presto arrivare a tracciare i confini definitivi dell’UE. Ora il processo è più facile perché non si pone più il problema della Turchia. Certo appaiono necessarie le riforme istituzionali alle quali lei ha fatto riferimento, ma queste riforme sono già indispensabili oggi”
Bruxelles vuole imporre a Berna l’adeguamento automatico delle nuove norme europee. Ciò metterebbe a dura prova la nostra democrazia diretta. Non sarebbe stato meglio chiedere alla Svizzera un maggior contributo al budget UE e proseguire sulla via degli accordi bilaterali?
“Non me la sento di dare un giudizio specifico visto che non faccio più parte delle istituzioni UE. Quello che posso dire è che quando ero presidente della Commissione mi sono sempre trovato bene con la Svizzera, in quanto partivo dal principio che nei rapporti con l’UE il vostro Paese ha molto da guadagnare e molto da perdere. Fra cent’anni, quando vi saranno stati mille passi avanti nel processo di avvicinamento, la Svizzera farà parte dell’UE. Ma guai ad affrettare un cammino che finora è sostanzialmente andato bene. Credo che negoziando piano piano ci si avvicini, ma non si può fare uno strappo quando ci si confronta con un sistema collaudato come quello dei rapporti tra Svizzera e Unione europea. Una decisione rapidissima la si può prendere quando invece l’UE tratta con i Paesi dei Balcani che hanno solo da guadagnare nell’avvicinamento al Club di Bruxelles. In quel caso la politica ha l’obbligo di imporre uno strappo in quanto risolve un problema urgente. Tutto diverso è il rapporto tra Berna e Bruxelles. Trovandosi nel cuore dell’Europa è chiaro che la Svizzera ha da guadagnare negli scambi con l’UE, però, come dicevo, ha anche molto da perdere. Allora nei negoziati si tratta caso per caso senza fretta”.
Quindi un po’ di solidarietà alle nostre autorità che chiedono più tempo per le trattative in corso lei la offre?
“Se partiamo dal principio che le due parti a confronto sono entrambe giustamente gelose delle conquiste fatte, gli uni in poco tempo, gli altri in secoli di storia, con la consapevolezza che bisogna convivere insieme, un compromesso si trova. Quello che però mi preoccupa, sia in Svizzera sia nell’Unione europea, è il ruolo dei sovranisti che, non avendo il senso della storia, non fanno altro che creare problemi. Bisogna infatti evitare che si risveglino i mostri del passato. E finora ci siamo riusciti”.
Come valuta invece il compromesso raggiunto dall’UE con Polonia e Ungheria sul rispetto dello stato di diritto?
“Il compromesso ha permesso di dare il via libera al bilancio europeo 2021-2027. Questa è una di quelle circostanze in cui il compromesso è una virtù: i diritti garantiti dall’UE sono salvaguardati. C’è stato un avvicinamento riguardo alle modalità di applicazione dello stato di diritto che è sembrato un cedimento da parte dell’Unione europea. Non è stato un cedimento, ma un adattamento necessario quando, per la prima volta, ritrova ad applicare una nuova norma. Molti commentatori sono rimasti colpiti dal fatto che Polonia e Ungheria abbiano inneggiato al risultato raggiunto. Mi sembra ovvio che i leader dei due Paesi, il giorno dell’accordo, si siano dichiarati vincitori. Questo è il teatro della politica”.
Con l’uscita di Londra dal Club di Bruxelles i 27 nei loro processi decisionali non avranno più a che fare con un partner ostico come il Regno Unito. Con la Brexit ci saranno più benefici o più difficoltà per l’UE che perde un contribuente netto nel suo bilancio?
“Le conseguenze della Brexit si sono già viste, nel senso che mai ci sarebbe stata l’approvazione del Next Generation EU (il piano di rilancio economico dell’UE, n.d.r.) con la Gran Bretagna ancora nell’Unione europea. Sono convinto che il Regno Unito, come aveva fatto in passato, su questi temi di solidarietà avrebbe scatenato una battaglia. E una battaglia fatta dalla Gran Bretagna e non dall’Olanda, sarebbe stata una battaglia vincente. È chiaro che questo piano europeo incide sul bilancio in quanto una maggiore solidarietà vuol dire che vi sia un impegno maggiore da parte dei singoli Paesi con un bilancio UE più cospicuo per l’intero periodo settennale. E questo cambia veramente l’Europa”.
Se invece confrontiamo l’UE dei nostri giorni con quella che lei ha conosciuto quando era presidente della Commissione, quali sono gli sviluppi che la soddisfano e quelli che invece la preoccupano di più?
“Fino a dieci mesi fa non riconoscevo più la mia Europa. Adesso invece la riconosco. Le istituzioni europee ricominciano ad offrire il senso di appartenenza ai cittadini. Non si può andare avanti in un’impresa così difficile, come quella dell’integrazione europea, se non si dà un senso di appartenenza alla popolazione dell’Unione europea”.