I terroristi mirano a distruggere l’unità europea. Tagliare i fondi a chi li aiuta
La forza non basta: tagliamo i fondi
Un intervento italiano in Libia avrebbe solo l’effetto di ricompattare le fazioni contro di noi.
Intervista di Francesco Anfossi a Romano Prodi su Famiglia Cristiana del 25 marzo 2016
“L’aeroporto di Zaventem, in cui sono stato infinite volte, la stazione del metrò di Maelbeck, a 150 metri dalla cittadella della Comunità europea, la nostra stazione della metropolitana. I lutti e le tragedie sono gli stessi ovunque avvengano, ma vedere che il terrorismo ha portato la morte in luoghi non solo familiari ma così significativi per l’Europa, mi ha particolarmente sconvolto”, commenta Romano Prodi, che da premier, ministro e presidente della Commissione europea (dal 1999 al 2004) è molto legato ai luoghi di Bruxelles trasformati in quel palcoscenico dell’orrore. “A Bruxelles c’è anche la sede dell’alleanza atlantica della Nato, avrebbero potuto colpire lì, e invece sono andati non nel centro militare ma nel cuore politico dell’Unione: tutto questo ha un significato molto preciso, molto forte. E’ all’unità europea che mira il terrorismo dell’Isis”.
Gli attentati di Bruxelles rafforzano o dividono ulteriormente quest’Europa?
Nel sentimento iniziale la rafforzano, l’accomunano nel dolore, ma poi, a lungo andare, sono i sentimenti di paura e di angoscia che la dividono. Non avevo mai avuto timore di una ferita profonda dell’Europa, nemmeno nei casi più complicati come nei giorni della crisi economica greca. Oggi l’intreccio tra l’immigrazione e il terrorismo, che di per sé non hanno correlazioni, è fonte di inquietudine per il cittadino. Il terrorismo colpisce l’animo profondo degli europei, che reagiscono con comportamenti individuali conseguenti: a Parigi il turismo è crollato, la gente ha paura a mettersi in viaggio, a uscire di casa. Se non si agisce, se non si costruisce una politica comune, il cittadino viene lasciato solo con la sua angoscia”.
A giugno gli inglesi votano se rimanere o no nell’Unione. Un’eventuale Brexit indebolirebbe ulteriormente l’Europa?
“Che il Regno Unito stia dentro o fuori è importante ma non decisivo. L’Unione si avvia fatalmente verso un’Europa a due o più gironi. I Paesi che non accettano Schengen e non adottano l’Euro sono già in un secondo girone. Anche Londra qualunque sia l’esito del referendum, non sarà nel primo girone. Le condizioni dettate da Cameron per rimanere nell’Unione tengono già il Regno Unito fuori dallo spirito europeo più autentico. Non si può stare in una Comunità a patto che questa non faccia più progressi nello stare insieme”.
L’accordo tra Unione e Turchia sui profughi siriani è fattibile?
“Quest’accordo è talmente complicato che è difficilmente attuabile. E tra l’altro grava di un peso tale la Grecia, senza darle aiuti sostanziosi, che è davvero difficile accettarlo con serenità. Capisco lo stato di necessità perché la Turchia possiede un’arma nucleare: può decidere di mandarci 2 milioni e mezzo di rifugiati in un sol colpo. Ma non è un accordo che rasserena l’Europa. Il fenomeno migratorio c’è da tantissimo tempo e durerà per tantissimo tempo. L’unica ricetta per regolare questi flussi imponenti è un grande progetto europeo di investimenti, soprattutto nelle zone africane. Ma tutte le volte in cui nell’ambito della mia commissione abbiamo proposto piani di sviluppo per l’Africa e il Maghreb non siamo mai riusciti a metterli in atto per l’opposizione soprattutto del Paesi del Nord. Pensi come sarebbe stata diversa la primavera araba se ci fossero state operazioni di questo tipo! Di progetti di investimento ce ne sono tanti a Bruxelles, ma non ne vedo la volontà politica di metterli in atto”.
I rapporti tra il Belgio e uno dei finanziatori occulti del fanatismo islamico, l’Arabia Saudita, sono di antica data, risalgono al 1969, con la cessione in cambio di petrolio della Pavillon du Cinquantenaire, trasformato in moschea e centro di cultura islamico.
“Un giorno venne da me nel mio ufficio di presidente della Commissione il primo ministro di un Paese islamico, lamentandosi, con forti richiami storici, che noi europei trattavamo quel Paese in modo inferiore. Io aprii la finestra e gli dissi: ‘come vede siamo nella cattolicissima Bruxelles ma da qui non si vede alcun campanile, tutto è sovrastato dall’altissimo minareto della moschea.’ Ogni mattina dalla mia finestra scorgevo centinaia di bambini entrare in quel centro islamico. Non so se i loro maestri fossero wahabiti o dei chierici moderati. So però che tutte le mattine i ragazzi entravano, ordinati e tranquilli. E nessuno mi fece mai cenno di insegnamenti eversivi. Non vi era un atteggiamento di propaganda o fanatismo che potesse indurci a sospettare quel che sarebbe accaduto oggi”.
L’escalation risale agli ultimi anni?
“La violenza è degli ultimi anni, mentre quella moschea sta lì dal 1969 come lei ha ricordato. E’ cambiato tutto. Riflettevo sulla storia dei lunghi periodi di convivenza tra ebrei, cristiani e musulmani in tutto il Medio Oriente, a partire dalle zone in cui oggi si consumano le tragedie più grandi. E’ chiaro che siamo entrati in un periodo storico completamente diverso. Nel 1979, da giovane professore, negli ultimi giorni dello Scià feci lezione a Teheran alla Business school e trovai un grande fermento. Pensavo sarebbe accaduta un’imminente rivoluzione, ma pensavo a una rivoluzione classica. Invece cambiò tutto. Pochissime donne giravano col velo in medio Oriente. Oggi nessuna passeggia per il Cairo o Teheran senza chador. E’ un cambiamento totale che fino all’11 settembre 2011 non aveva dato luogo a episodi di criminalità. A Bruxelles, nel quartiere islamico, si lanciano pomodori alla polizia che arresta uno degli attentatori del Bataclan. E’ questo conflitto di civiltà che è estremamente pericoloso per l’occidente e il mondo. Non abbiamo riflettuto abbastanza sulle origini e gli sbocchi di questi cambiamenti”.
Abolire il trattato di Schengen, chiudere le frontiere, ci salverebbe dalla minaccia del terrorismo?
“Abolire Schengen significa abolire l’Unione europea. L’Europa si basa sulla libertà, sarebbe una disfatta completa. Il nostro sforzo deve essere quello di gestire questo problema. Il primo obiettivo deve esse quello di riportare la pace in Siria e in Libia. Il caos genera caos anche in Europa. Quante volte Gheddafi, quando ero presidente del Consiglio, ha minacciato di mandarmi i barconi di immigrati! Poi però non lo ha mai fatto. C’era un rapporto spesso conflittuale, ma sempre responsabile, da Stato a Stato. Il primo problema è quello riportare la pace e governi stabili in queste aree”.
E’ venuto il momento di mettere gli scarponi sul terreno?
“Mi dica un luogo nel mondo in cui abbiamo messo gli scarponi sul terreno e abbiamo ottenuto la pace. Le guerre sono foriere di terrorismo, che è un problema internazionale: ce l’ha la Cina, dove esiste l’estremismo musulmano degli Uiguri; la Russia è nell’angoscia dei ceceni e del terrorismo caucasico, non parliamo di Usa e Unione europea. Sarà la mia natura di economista, ma la prima da cosa da fare è tagliare i finanziamenti al terrorismo”.
Lei insiste molto sulla proposta di colpire i pozzi di petrolio del Califfato islamico…
“Non solo questo. I mezzi finanziari del terrorismo arrivano soprattutto da strutture pubbliche o private di vari Paesi che hanno tutte una caratteristica comune: quella di non poter fare a meno della Cina, della Russia e dell’Occidente. Paesi che ufficialmente sono nostri alleati ma poi finanziano occultamente il terrorismo. Questo doppio gioco deve finire”.
L’Italia deve intervenire in Libia per combattere l’Isis e facilitare una transizione democratica?
“La mia opinione sulla Libia è molto chiara: stare molto attenti. Perché andare in Libia con dei militari significa avere tutti contro di noi. Se vuole che il frazionamento libico finisca mandi in Libia un reggimento di soldati: il Paese si ricompatterà immediatamente contro di noi. Quando, prima della guerra di Libia del 1911, l’allora capo di Stato maggiore propose a Giolitti di inviarvi 100 mila uomini, Giolitti rispose che ne occorrevano almeno 200 mila. E parliamo di un tempo in cui “lo scatolone di sabbia”, come le gazzette definivano la Libia, aveva solo un milione di abitanti. Oggi sono il quintuplo, su un territorio sei volte l’Italia. Chi parla di un intervento militare libico non sa di che cosa parla”.