Incentivi per fusioni e startup. Lo Stato nelle imprese come azionista di minoranza
“Lo Stato nelle imprese private come azionista di minoranza”
Intervista di Luca Piana su La Repubblica – Affari & Finanza del 22 giugno 2020
Incentivi a fondo perduto alle aziende che si aggregano, a chi investe in tecnologie, alle startup. Un nucleo di centri per l’innovazione. E il possibile ingresso nei gruppi che hanno bisogno di fondi. La ricetta del Professore per ripartire
R omano Prodi non si definisce ottimista perché, dice, “se ci sarà una recrudescenza del virus, diventerà più complicato”. Ma osserva che “la reazione contro la crisi non ha precedenti: alle risorse messe in gioco dagli Stati Uniti e dalla Cina si sono aggiunte quelle europee, che sono tante, tra fondi già stanziati, poi il Mes, infine il piano Next Generation. E molti non hanno ancora capito quanto importante sia, nell’immediato, che la Germania abbia deciso di andare in deficit di bilancio, e di farlo in modo vigoroso. Con l’austerità ci ha tenuto in crisi per anni mentre, ora, tutti quelli che potevano mettere i soldi sul tavolo, lo hanno fatto”. La carriera del professore, 81 anni in agosto, lo rende un interlocutore privilegiato in una fase in cui le sue esperienze sono tutte rilevanti per decifrare il presente. Economista, presidente dell’Iri, premier due volte e, nel mezzo, presidente della Commissione europea, osserva che i protezionismi e il coronavirus hanno cambiato le prospettive perché “in futuro il mercato globale sarà un po’ meno globale. Gli Stati Uniti e l’Europa non possono più permettersi quanto è avvenuto nella pandemia per la mancanza di produzioni di presìdi sanitari elementari come mascherine, camici, respiratori. Il nostro futuro sarà caratterizzato dalla tendenza a una maggiore sufficienza regionale tra i grandi protagonisti mondiali, Stati Uniti, Europa e Cina. Non la fine della globalizzazione, ma una sua riorganizzazione”.
Ha detto che il processo per noi non sarà né facile né automatico.
“Perché dovremo essere veloci, scegliere la nostra vocazione e darci una politica industriale. Per motivi politici e economici in molti settori, soprattutto quelli ad altissima tecnologia, i tre grandi protagonisti vorranno partecipare al gioco. Tra le imprese vi saranno dunque molti rimpatri. Dobbiamo cercare di essere fra quelli che ne beneficeranno”.
Il problema delle nostre imprese?
“Partiamo da quello che, purtroppo, è il nostro grande vantaggio: il basso costo del lavoro. Rispetto ai Paesi europei più avanzati, Germania, Francia, Svizzera, Austria, il costo complessivo del lavoro è minore. Dovrebbe favorire gli investimenti e, invece, non è sufficiente. Badi bene, i nostri imprenditori affrontano tanti problemi, come i costi elevatissimi dell’energia o della logistica. Ma la manodopera costa poco, eppure non basta per attirare gli investimenti, che sono frenati dalla scarsa produttività complessiva”.
Perché è bassa?
“Oltre ai noti e tragici problemi della burocrazia e della giustizia, soffrono per le dimensioni ridotte delle aziende. Se si osserva la produttività di quelle che sono a capo di una filiera o delle medie, non abbiamo nulla da imparare dai tedeschi. Poi però ne abbiamo un’infinità di piccole in difficoltà. Ovunque ci sono zone artigianali con aziende chiuse e capannoni vuoti. Molti piccoli hanno costi troppo elevati e agiscono in mercati a scarso valore aggiunto. Così non possono che essere le vittime dei Paesi emergenti”.
Come spendere i soldi europei per recuperare produttività?
“Darei priorità assoluta agli incentivi, anche a fondo perduto, per favorire non solo gli investimenti in tecnologia, ma soprattutto le fusioni, che aiutino le imprese a fare un salto dimensionale, e a tutti gli strumenti necessari per dare continuità alle aziende familiari. Poi servono aiuti alle startup: chiaro che molte non ce la fanno ma bisogna far sì che quelle che sopravvivono non emigrino. La vicepresidente della Commissione, Margrethe Vestager, ha annunciato che saranno rilassate le regole sugli aiuti alle startup. Ci vuole subito qualcuno che selezioni le meritevoli, senza paura di rischiare, perché il rischio è parte della loro natura. La risposta dev’ essere immediata, gli altri si muoveranno rapidamente”.
Il nesso fra innovazione e istruzione è forte. Gli italiani però sono indietro negli studi superiori.
“Insisto spesso sull’istruzione e sul progresso tecnologico. E la mia mania per le scuole tecniche è ben nota. Dobbiamo dar loro dignità, è un fatto educativo cheprima di tutto va affrontato con i genitori. Non è poi possibile che le scuole seguano gli aspetti specifici del vorticoso progresso tecnico, c’è bisogno di formazione continua, indispensabile con le nuove tecnologie. Prenda ad esempio la meccanica strumentale”.
Il primo settore per export.
“Sta vivendo la trasformazione più forte, deve integrare i progressi dei Big Data e dell’intelligenza artificiale. Sia chiaro: è difficile che l’Italia possa essere un grande produttore di intelligenza artificiale, i terribili oligopolisti mondiali vi impegnano risorse senza limiti. Possiamo però fare un grande sforzo per integrarla nella produzione, e per farlo abbiamo bisogno di strutture che facciano da ponte. Sono trent’ anni che si predica la necessità di creare un istituto come il Fraunhofer”.
L’istituto di Monaco che aiuta il trasferimento tecnologico e ha una filiale a Bolzano.
“La tecnologia applicata non può parlare solo tedesco. La questione è anche il ruolo delle Regioni. Abbiamo deciso che ne abbiano uno nella politica industriale? Facciamolo, con un coordinamento centrale però per impedire che ognuna metta su il suo Fraunhofer senza curarsi di cosa fanno gli altri e, poi, per far lavorare insieme università, Cnr e imprese. Guardi che non penso a molti centri. La Lombardia potrebbe occuparsi subito di chimica degli intermedi, l’Emilia di meccanica strumentale e così via. Anche al Sud ci sono aree che possono rispondere bene alla modernizzazione, penso in particolare a Napoli e di Bari”.
Tutti invocano investimenti green. Concorda?
“Saranno sempre più importanti, ma con alcuni problemi seri. Perché se non parteciperemo in modo attivo ai necessari investimenti il prezzo delle scelte ambientaliste sarà troppo alto, e i contrari si scateneranno. Non possiamo essere solo consumatori, dobbiamo essere anche produttori del verde. Pensi alle batterie: se non ci diamo una sveglia l’auto elettrica sarà solo un passivo“.
Pensa a un fatto in particolare? ”
Alla prima riunione per definire una politica europea sulle batterie per l’auto, l’Italia non c’era. Il risultato? Si è deciso di costruire tre impianti, uno sperimentale in Francia, e due produttivi, uno in Germania l’altro in Francia. Una nuova politica ambientale è un diritto dei cittadini, ma non possiamo affrontarla solo comprando tecnologie all’estero”.
Confindustria e governo si sono scontrate sul ruolo dello Stato nelle aziende. Lo Stato deve tornare a giocare un ruolo attivo?
“All’Iri ho avuto il compito di privatizzare tante imprese e non mi sono mai tirato indietro. Ho fatto ditutto però perché rimanessero in Italia. Poi purtroppo molte sono state vendute, anche perché non abbiamo fatto una politica che regolasse il problema. Ora non penso a uno Stato dirigista e nemmeno a una nuova Iri, non è possibile, ma se un’azienda chiede una grande quantità di denaro pubblico è necessario che vengano garantiti i nostri interessi. La Francia ha già risolto il problema, pur avendo una struttura industriale molto peggiore della nostra”.
Come l’ha fatto?
“Con un ruolo studiato di azionista di minoranza da parte dello Stato. Nei casi nei quali è in gioco la strategia di lungo periodo è presente non solo come arbitro, ma anche come socio a salvaguardia degli interessi nazionali. Così un Paese che non è industrialmente un gigante ha un peso infinitamente più forte del nostro nell’oligopolio mondiale. Se un’azienda ottiene grandi quantità di denaro pubblico, bisognerà pure che lo Stato possa garantire che il denaro dei cittadini non sia impiegato per lucrare vendendola all’estero. La Germania non è certo un Paese pericolosamente comunista, ma se mette 9 miliardi in Lufthansa, vuole poterci mettere il naso”.
Quando parla della Francia il pensiero va alla fusione Fca-Psa.
“Nella nuova impresa avremo un azionista italiano, ma dall’altra parte c’è anche lo Stato francese. Non propongo certo nessuna partecipazione italiana ma non posso non mettere in rilievo l’asimmetria. La soluzione deve essere la meno intrusiva possibile ma uno sguardo all’interesse italiano non lo ritengo certamente un’eresia”.
La Confindustria dice: visto lo Stato in Alitalia e all’Ilva?
“Facciamo l’elenco di cosa è successo a tanti privati? Pensi al settore telefonico, al cemento, alla gomma. Ho sempre ammesso i peccati pubblici, e ho cercato di correggerli, ma non è detto che le imprese private siano state concepite senza peccato”.
Quindi il governo italiano dovrebbe avere più coraggio?
“Se identifica aziende importanti che rischiano di andar via e hanno bisogno di finanziamenti, può e deve aiutarle. La partecipazione pubblica dev’ essere un caso eccezionale, ma ci sono altri strumenti per garantire che il denaro pubblico sia impiegato nell’interesse generale”.
Dove dovrebbe investire adesso?
“Nelle aziende che chiamo i capo-filiera, le nostre imprese che hanno bisogno di un salto per entrare e rimanere tra i leader mondiali. Poi la priorità dev’ essere aiutare le imprese innovative a crescere: ne abbiamo troppo poche”.
Lei ha detto che la Cdp gioca la partita delle partecipazioni pubbliche in modo finanziario.
“È nata così. Ora sta assumendo nuove funzioni. Ancor più dopo la crisi, è diventata un’importante protagonista delle politiche industriali. Naturale che ne vengano precisati i compiti e che la struttura sia rafforzata per affrontarli”.