Italia a rischio senza legge elettorale maggioritaria fondata su collegi uninominali
L’allarme di Romano Prodi: “Si rischia un attacco della speculazione”
“Senza legge elettorale c’è un futuro spagnolo: voti a ripetizione”
Intervista di Marco Damilano a Romano Prodi su L’Espresso del 22 maggio 2017
Nel suo nuovo libro appena uscito, “Il piano inclinato” (Il Mulino) Romano Prodi naviga tra l’utopia – la sconfitta della disuguaglianza in crescita nelle società occidentali – e la cassetta degli attrezzi, una serie di misure concrete per l’Italia su pensioni, scuola, casa, fisco, welfare. Un piano di governo per l’Italia che «rischia un futuro spagnolo: elezioni a ripetizione e speculazione internazionale», avverte il Professore.
Lei ha partecipato a dieci vertici G7, cinque da presidente del Consiglio e cinque da presidente della Commissione europea. In quello di Taormina ci sarà l’esordio di Donald Trump e di Emmanuel Macron, oltre che di Paolo Gentiloni. Chi sarà il protagonista?
«Da più di un decennio il G7 ha perso importanza. La domanda è: protagonista per fare cosa? Non c’è la Russia, non c’è la Cina, che sette grandi sono? Si scambieranno opinioni, ci sarà un esame sui nuovi arrivati, Trump, Macron. Gli ultimi G7 e G8 sono stati incontri di autoconsolazione. Speriamo, ma solo speriamo, in qualcosa di meglio a Taormina».
Sono i sette paesi dello scontento: i paesi dell’Occidente in cui l’ascensore sociale si è fermato e la disuguaglianza è cresciuta, a differenza di altre zone del mondo.
«Non è più così. La disuguaglianza non è un problema solo dell’Occidente. L’ingiustizia sociale è uno stato mondiale, i livelli di disparità sono aumentati anche in Cina e in India. In Occidente certamente assistiamo a un processo di esclusione dai diritti di cittadinanza che coinvolge quel ceto medio che fino a pochi anni fa era considerato il motore dello sviluppo economico e il cardine della stabilità politica. Ovunque il ceto medio ha sofferto gli effetti della crisi, si è spaccato, una piccola parte ha aumentato il suo benessere, la maggior parte è scesa nella scala sociale a causa di una globalizzazione non guidata e delle nuove tecnologie che annullano posti di lavoro senza costruire nuove opportunità. Io lo chiamo il declino della speranza. Ho quasi un’ossessione: se si spezza questo punto di equilibrio viene meno la civiltà democratica. Con tutti i limiti dell’attuale sistema bisogna ipotizzare un’inversione della rotta delle disparità».
In “Il piano inclinato” lei raccolta il capovolgimento di prospettiva del welfare: da leva di crescita a freno alla competitività.
«È il terzo fattore di scivolamento nella povertà del ceto medio, accanto alla globalizzazione e alle nuove tecnologie: la mancanza di protezione rispetto agli eventi negativi della vita, la perdita di un posto di lavoro, un problema di salute. Ero ministro quando nel 1978 il governo introdusse il Servizio sanitario nazionale. Ricordo gli applausi, l’entusiasmo, la gratitudine per il ministro Tina Anselmi. Era il segno di un salto in avanti del Paese, voluto da un governo presieduto da Giulio Andreotti che non era di sinistra, ma rappresentava bene quel ceto medio in crescita di benessere e di diritti. Oggi c’è un pensiero unico che vede il welfare come un peso, io continuo a pensare che sia una risorsa».
Negli Usa durante la sua presidenza Barack Obama ha riversato ottocento miliardi di dollari sull’economia reale. E in Europa?
«L’Europa inizialmente non ha fatto nulla pensando che la crisi si aggiustasse da sola. Poi, quando è intervenuta, ha impiegato le risorse che potevano essere destinate al welfare per sostenere le banche colpite dalla crisi».
In questo contesto l’Italia soffre più di altri: crescita al lumicino (lo 0,2 nel primo trimestre 2017), debito pubblico alle stelle…
«E in più ci sono la mancanza di produttività e il venir meno del sistema industriale. Ci sono state privatizzazioni che hanno fatto venir meno le aziende o che hanno provocato la loro vendita all’estero. È rimasto un buon numero di centinaia di imprese medie, sono la nostra ricchezza nel mondo e su di esse bisogna puntare. Ma serve un salto di innovazione impressionante, la costruzione di centri di ricerca qualificata su modello dei Fraunhofer tedeschi, strutture di sistema che da noi non esistono. Infine, c’è la questione del Mezzogiorno rimasto fuori dal giro, con un terziario che fatica a resistere sui settori innovativi e anche su turismo e agricoltura che potrebbero essere le carte da giocare».
Uno scenario molto negativo. Da dove ripartire?
«Da produttività e innovazione. La crescita è fatta di queste cose. Misure a breve, aggiustamenti solo in apparenza minimi. Finanziare gli studenti delle scuole applicate, per esempio. In pochi sanno che in Italia solo il 2,4 per cento della popolazione studentesca gode di forme di sostegno pubblico, mentre nel resto d’Europa riguarda oltre la metà degli iscritti all’università. E poi ridurre le possibilità di intervento della burocrazia, il vero nemico della crescita. Per provocazione direi: abolire il Consiglio di Stato, i Tar! Ma in ogni caso definirne le funzioni e i campi di intervento, se non vengono abbattuti a un decimo degli interventi attuali il Paese va in rovina. E invece siamo andati sempre nella direzione opposta, con la creazione di ulteriori momenti di controllo: ogni appalto è sotto ricorso».
In questa situazione, c’è da esultare per il ritorno dell’asse franco-tedesco dopo la vittoria di Macron? Non c’è il rischio che l’Italia risulti sempre di più l’anello debole dell’Europa?
«Non credo. L’Italia ha molto da guadagnare da una ripresa di ruolo della Francia. In molti punti gli interessi francesi coincidono con quelli italiani: la disciplina di bilancio, le alleanze territoriali. Anche la Francia, in questi anni, ha perso molto terreno nel sistema industriale, non a caso la campagna elettorale di Marine Le Pen si è concentrata soprattutto su questo punto. Per cambiare le politiche europee serve un’alleanza tra Francia, Italia e anche Spagna, e questo fronte ha un’efficacia diversa se la Francia è più forte e autorevole. Nel motore europeo il pistone francese è più piccolo di quello tedesco, se vuole aumentare la sua potenza ha bisogno dell’Italia. Certo, serve un accordo con Macron, una continuità di politica. E qui ritorna la domanda che Helmut Kohl mi fece quando lo visitai per la prima volta da presidente del Consiglio: “Ci siamo trovati bene, ma chi viene la prossima volta?”».
L’instabilità politica, cioè. Nei prossimi mesi è destinata a aumentare?
«Sì. L’instabilità pesa tantissimo, provoca lo stesso danno della burocrazia per incapacità decisionale. E per i prossimi mesi, in assenza di una legge elettorale maggioritaria fondata sui collegi uninominali, prevedo per l’Italia un futuro spagnolo. Il ripetersi delle elezioni, con la minaccia della speculazione internazionale che tornerà a rivolgersi verso l’Italia».
Non è l’unica previsione che ha fatto in questo periodo. Prima del referendum del 4 dicembre lei annunciò il suo sì alla riforma costituzionale, ma avvertì: «In ogni caso ci sarà un periodo di turbolenza inutile e dannosa».
«È quello che è successo. Ogni giorno c’è un sussulto, ogni ora nascono o minacciano di nascere nuovi partiti. Perfino la Lega si sta spaccando, eppure fino a poco tempo fa era un monolite…».
Dopo la vittoria di Macron in Francia si è concluso: il populismo è stato sconfitto. Condivide?
«Sotto certi aspetti è vero. La stessa Marine Le Pen ha annunciato la revisione del suo partito, vorrebbe abbandonare l’identità di destra e presentarsi come il nuovo De Gaulle alle prossime elezioni del 2022, parlare alla Francia profonda e non solo agli sconfitti della globalizzazione».
Vale anche per l’Italia con M5S?
«In Italia la partita è ancora tutta da giocare. Certo, il populismo del Movimento 5 Stelle ha più successo della Lega proprio perché non ha radici né di destra né di sinistra. Gli basta criticare il sistema. Mentre per la Lega il collante è ancora una rabbia fondamentalmente di destra».
In tutta Europa la sinistra è in crisi: in Germania Martin Schulz ha perso in Nord Reno-Westfalia, in Francia i socialisti sono stati spazzati via, in Spagna sono dilaniati e in Olanda sono spariti, in Inghilterra i laburisti sono sotto nei sondaggi. In Italia il centrosinistra di cui lei è stato fondatore è ancora competitivo?
«La sinistra europea è in crisi perché non riesce a portare avanti la sua missione. Ma attenzione: la sinistra perde proprio ora che sono più forti le esigenze che la renderebbero necessaria. In Francia Macron si propone di essere interprete di questi obiettivi. In Italia non sappiamo ancora come saranno le alleanze e la legge elettorale. Resto convinto che un centrosinistra non frammentato possa essere la soluzione più adeguata, ma bisogna vedere se avrà la forza di farlo. Siamo in una situazione indefinita».
C’è chi dice che il centrosinistra appartiene al passato. E che la risposta nella prossima legislatura sia una coalizione tra Pd e Forza Italia.
«Ripeto: non so se il centrosinistra sia in grado di rappresentare la soluzione, dipende da quanto sarà frammentata la situazione. Ma le riforme di cui il Paese ha bisogno non possono essere portate avanti da un governo in cui sia determinante la destra».
Come giudica la nuova metamorfosi di Silvio Berlusconi: da populista anti-europeo a difensore dell’Europa e paladino dei moderati?
«Ci leggo il riconoscimento che il futuro è di nuovo nella direzione dell’Europa. Berlusconi è un realista, si adatta agli avvenimenti, vede che sta prevalendo la necessità di un ritorno alla costruzione europea e si comporta di conseguenza. In più, questa posizione gli serve per riaffermare il suo primato rispetto a una Lega sempre più anti-europea. Ha sempre creato eredi e poi li ha eliminati. Il primo vuole essere sempre lui».
Il Pd di Matteo Renzi dice di essere l’unico argine democratico: è adeguato a queste sfide?
«È l’unico partito che c’è. Ma il caso unico della partecipazione alle primarie non ha purtroppo riscontro nella vita quotidiana, nelle città, nelle periferie, dove il partito non c’è più. Le grandi trasformazioni non si fanno nei consigli dei ministri, per portarle avanti serve una grande forza popolare, il coinvolgimento della società che è un valore ancora più forte in un periodo in cui anche in Occidente va di moda la tentazione autoritaria, la simpatia per l’uomo forte».