L’Europa si svegli: Internet deve diventare diritto dell’umanità
“Il web deve diventare un diritto dell’uomo. E l’Europa su questo deve svegliarsi”
“Le sfilacciature della rete digitale impediscono ancora oggi a tre miliardi di persone di comunicare con il resto del mondo, di sapere che succede nel proprio paese e di aver accesso a conoscenza e informazione”.
Intervista di Gloria Riva a Romano Prodi su L’Espresso del 4 luglio 2019
Si chiama world wide web, eppure la ragnatela di internet è tutt’altro che globale. Infatti il 40 per cento della popolazione mondiale non ha accesso al web, mentre il restante 60 lamenta lo strapotere di Amazon, Facebook, Google, monopolisti del digitale. Dalla fame d’informazione online al diritto alla connettività, L’Espresso dialoga con Romano Prodi, fondatore e presidente della Foundation for World Wide Cooperation, l’associazione che sta facendo un’azione di lobby per convincere l’Onu ad inserire la connettività fra i diritti dell’uomo, al pari della libertà e dell’istruzione.
Perché la prospettiva di restare offline è allettante solo per qualche ora, giusto il tempo di prendere le distanze dalle email lavorative, dalle notifiche, dalla costante geolocalizzazione di Google, ma è indubbio che diciotto anni di world wide web abbiano portato ad allargare la base della conoscenza e della consapevolezza: «Le aree innervate dalla connessione internet sono quelle che più facilmente e velocemente si sviluppano, le altre hanno pochissima probabilità di evolversi. C’è una correlazione diretta fra connessione e crescita» spiega il professore.
Quanto è ancora locale la rete che s’atteggia a globale?
«Inizialmente pensavo che la disomogenea diffusione del web fosse una questione risolvibile in breve tempo, invece il percorso è lento e accidentato. Le sfilacciature della rete digitale impediscono ancora oggi a tre miliardi di persone, cioè al 40 per cento degli abitanti della terra, di essere online, di comunicare con il resto del mondo, di sapere che succede nel proprio paese e di aver accesso a un corso di formazione che, per esempio, può insegnare un metodo per rendere più fertile la terra».
Verrebbe da pensare che se la Dichiarazione dei Diritti Umani, adottata dalle Nazioni Unite nel 1948, dovesse essere riscritta oggi, oltre al diritto a non essere ridotti in schiavitù, quello all’istruzione, a una casa, al lavoro, includerebbe il diritto alla connettività. Eppure, questa piccola estensione, è più complicata del previsto. Da due anni il professore sta cercando di convincere le Nazioni Unite. Ha trovato il sostegno dell’Accademia Ponteficia, di Nicholas Negroponte, autore del best seller Being Digital ed esponente di spicco del Mit di Boston, e dell’economista Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute alla Columbia University e promotore di un modello alternativo al turbocapitalismo per sconfiggere le sempre maggiori disuguaglianze del sistema economico globale. L’iniziativa è stata sostenuta anche dal rappresentante italiano permanente all’Onu, prima dall’ambasciatore Sebastiano Cardi, poi Mariangela Zappia. Così come dall’Unione Africana. Non è bastato. Cosa manca ancora?
«Ci vuole un’ondata di convinzione generale, ci vuole una lobby politica interessata a portare questo tema all’ordine del giorno nelle Nazioni Unite. Poi servono i protocolli per la cooperazione fra i governi e un favorevole quadro generale per l’approvazione. Manca l’interesse mondiale a far sì che tutti possano avere diritto al web».
Perché tante resistenze?
«C’è sicuramente il timore, da parte di alcune nazioni, che i costi di una rete infrastrutturale digitale mondiale ricadano sui paesi ricchi e che il diritto alla connettività equivalga a un principio di gratuità. Ma avere un diritto non significa pretenderne la gratuità. È un falso problema: l’accesso al web è paragonabile al diritto all’acqua, che contemporaneamente entra nelle nostre case e nelle nostre bollette».
Di mezzo, insomma, ci stanno sempre i soldi. Ma vediamo, chi dovrebbe farsi carico della realizzazione delle infrastrutture digitali?
«Premesso che il riconoscimento del diritto non costa nulla a nessuno, nel medio periodo sarebbero le imprese che ritengono economicamente profittevole un investimento in quelle aree a farsi carico dei progetti. Sino ad oggi quelle che hanno sostenuto lo sviluppo dell’infrastruttura digitale nei paesi in via di sviluppo, specie in Africa, hanno guadagnato dall’implementazione di sistemi tecnologici avanzati. Ad esempio, abbiamo osservato lo sviluppo esponenziale di due banche africane che performano meglio e più velocemente rispetto a quelle dei paesi sviluppati, perché sono partite senza alcuna zavorra pre-digitale. Concretamente, se da un lato esistono imprese a sostegno dell’investimento e dello sviluppo, dall’altro ci sono spinte contrarie di paesi che non hanno alcun interesse a favorire una crescita culturale e civile di queste aree. Mi riferisco, per esempio, alla Cina, che si sta impegnando nello sviluppo hardware dell’Africa, costruendo strade e dighe, ma non in quello software delle infrastrutture digitali. Mentre gli Stati Uniti non hanno alcun motivo per investire in quell’area, specialmente da quando hanno avviato una politica di sostanziale autosufficienza energetica».
Quale ruolo sta giocando, invece, l’Europa?
«L’Europa dovrebbe svegliarsi, investendo sia nell’hardware, sia nel software. Dovremmo essere i più interessati alla crescita economica, culturale e civile dell’Africa, terra di conquista per la Cina, un paese che possiede il sette per cento delle terre coltivabili del mondo, ma il 20 per cento della popolazione globale. È chiaramente interessata a ritagliarsi una fonte di cibo e materie prime in Africa».
Perché l’Europa ha così tante remore a sostenere la connettività quale diritto universale, ad estenderlo a paesi poveri, come quelli africani?
«Centinaia d’anni di colonialismo non si cancellano in poco tempo e il peso degli ex paesi coloniali è ancora molto forte. Nonostante lo spazio di manovra della Commissione Europea stia crescendo, l’influenza di Francia e Gran Bretagna è ancora molto forte e questo rende tutto più difficile. Il risultato è l’assenza di una chiara e decisa presa di posizione comune. Sarebbe però moralmente doveroso e politicamente indispensabile approvare questo piano, perché nonostante l’Europa sostenga l’Africa con progetti di aiuto, non ha mai fatto il grande salto, affermando un progetto di sviluppo collettivo per il continente. Si potrebbe partire proprio da questo diritto alla connettività, che è fondamentale per garantire l’inclusione sociale, per promuovere l’innovazione nei diversi settori economici, dall’agricoltura alla sanità, dalla tutela dell’ambiente al mondo del lavoro, dall’uguaglianza di genere alla tolleranza. L’accesso a internet consentirebbe a milioni di bambini di accedere all’educazione scolastica di base. Se l’Europa e la Cina andassero al di là degli interessi politici, allora qualcosa potrebbe davvero cambiare. Certo, lo so, è utopia».
Eppure i tentativi di coinvolgere nazioni e delegazioni continuano. A fine gennaio Prodi ha incontrato Michelle Bachelet, Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, per aggiornarla sull’esigenza di fare della connettività un diritto. Un altro passo è stato fatto, ma la strada è lunga.
«Le Nazioni Unite sono l’ago della bilancia. Tuttavia è un ente più complicato di quanto si possa immaginare e per ottenere un risultato significativo serve un vero e potente interesse politico».
Dall’altra parte dello spettro, c’è un sistema monopolistico che ha conquistato il controllo del digitale. Se oggi gli africani dovessero diventare cittadini del web, dovrebbero immediatamente fare i conti con Google, Amazon e Facebook, padroni assoluti della rete. Le big company del web crescono acquisendo ogni neonata e interessante start up anche per evitare che, in futuro, possa competere con loro, negando dunque ogni possibile concorrenza. E il sistema di indicizzazione delle ricerche Google, ad esempio, è gestito da un algoritmo i cui parametri non sono noti.
«È una questione molto importante e bisognerà pure che un giorno o l’altro l’antitrust torni a fare il proprio mestiere. Di regolamentazione del mercato mi sono occupato per lunghissimo tempo (prima interessandosi alla questione dei monopoli durante i propri studi economici, successivamente gestendo la ristrutturazione dell’Iri e dando il via al piano di privatizzazione nazionale, poi alla presidenza della Commissione europea, ndr). Era un periodo in cui il lavoro dell’antitrust era vivace, contrastava lo strapotere dei grandi monopolisti, come i Rockefeller, padroni delle ferrovie e dell’energia, per nulla amati dalla popolazione, perché avevano il potere di alzare i prezzi a proprio piacimento restringendo l’offerta. Oggi, invece, non c’è battaglia: sembra che per i politici sia difficile contrastare Google e Facebook, se non altro perché il costo di queste piattaforme è supportato dalla pubblicità e non grava direttamente sulle tasche dei consumatori. Quando utilizziamo Google Map ne percepiamo solo il vantaggio di poterci muovere facilmente in un luogo sconosciuto, mentre non capiamo che quel servizio viene pagato rinunciando a un po’ di privacy. I cittadini non ne sentono direttamente il peso, ma c’è ed è gravoso. La svolta arriverà non appena la popolazione percepirà la privacy come un diritto indispensabile e inviolabile e allora capiranno che questo è un monopolio, che limita la concorrenza. Perché il web non è una gentile concessione, ma è un diritto».
Il punto di contatto fra chi non ha accesso al web e chi può sfruttarlo solo cedendo informazioni a Google e Facebook, sta proprio qui. Risolvere un problema significa affrontare anche l’altro.
«Se il web venisse considerato come un diritto per l’uomo, come un’infrastruttura di pubblica utilità, al pari di una strada, di un aeroporto, di un acquedotto, allora saremmo meno disposti ad accettare che una manciata di big company controllino questo bene prezioso che è l’informazione e la comunicazione digitale, che è la porta d’accesso per diventare cittadini del mondo. Credo che questi due obiettivi, il diritto alla connettività e l’affrancamento dai monopoli, vadano di pari passo e la conquista dell’uno sia strettamente legata all’altra. Ma per raggiungerli serve interesse, consapevolezza, serve un’ondata di interesse popolare».