Solo con l’austerità andiamo in malora, occorre sviluppare una politica industriale europea

Un patto a tre per convincere Berlino

Intervista di Riccardo Barlaam a Romano Prodi su Il Sole 24 Ore del 6 maggio 2012

Sul tavolo dell’hotel, in giardino, sotto un sole africano, ci sono due cartoncini, forse il retro di una scatola di fazzoletti, pieni di parole scritte a mano fitte fitte: «Sono alcune riflessioni sul capitalismo. Non avevo fogli di carta. Ora devo ricopiarli».

Romano Prodi, 72 anni, non ascolta i consigli dei suoi che lo invitano a stare all’ombra («comincio a vivere sopra i 30 gradi», ride sornione). Come un gatto dalle sette vite sembra in forma più che mai. Parla a ruota libera dell’Europa e dell’Africa, delle elezioni francesi, della Grecia. Dell’Italia del Governo Monti e perfino del Giro d’Italia («mi hanno invitato, mi piacebbe andare ma non so se riuscirò…»).

È ad Addis Abeba, la Bruxelles africana, per la terza edizione del convegno organizzato dalla sua Fondazione per la collaborazione tra i Popoli: «Africa, 54 Paesi, una Unione». L’unità, l’integrazione è una delle costanti, da politico e da economista, del professore. Non molto tempo fa si diceva che l’Africa era un continente perduto, oggi è diventata la terra delle opportunità. Il convegno si svolge nella impressionante sede dell’Unione africana, appena inaugurata. L’hanno costruita i cinesi in due anni. Sul terreno dove sorgevano le carceri politiche del sanguinario Mengistu oggi c’è il simbolo identitario della nuova Africa unita.

Il tema dello lo sviluppo economico è centrale.

L’Unione europea, con tutte le critiche che le si fanno, è stato il più grande cambiamento pacifico del continente nel nostro secolo. L’Africa è infinitamente più frammentata dell’Europa: 54 Paesi diversi. Se non si crea una cooperazione strettissima, anche al suo interno, non si potrà mai avere un’industria moderna, non si potrà mai avere il grande salto che oggi si profila. Noi abbiamo messo attorno allo stesso tavolo per la prima volta rappresentanti di Stati Uniti e Cina, le due grandi potenze, con Unione africana, Ue, Onu e con le banche pubbliche (Bei, World bank, Afdb). Un discorso ristretto dal punto di vista dei partecipanti ma estremamente importante perché mettiamo sul tavolo le cose da fare per aiutare questo sviluppo.

L’Africa è diventata la nuova frontiera per gli investimenti in un momento di crisi economica occidentale.

Tutti vogliono venire in Africa con strategie diverse. La Cina considera l’Africa come un unico continente e ha relazioni diplomatiche con 51 nazioni su 54. Gli europei invece vanno avanti in ordine sparso: la Francia con le ex colonie, gli inglesi con i Paesi anglofoni, gli Stati Uniti con i Paesi amici. L’Europa fa quello che può ma i suoi Paesi gli corrono alle spalle.

La Cina in pochi anni ha mischiato le carte della geopolitica del continente.

La Cina fa un’opera di trascinamento e gli europei hanno capito che se non ci si mette insieme l’Africa va tutta alla Cina… Allora di fronte a questa prospettiva occorre una politica per l’Africa che guardi a tutto il continente. Una concorrenza virtuosa è condizione indispensabile per lo sviluppo africano. Una concorrenza necessaria anche alla Cina perché si tenga lontana da vizi di neocolonialismo

Veniamo alla vecchia Europa. Oggi la Francia sceglie il suo presidente. Françoise Hollande ha già detto quale sarà la sua ricetta in caso di vittoria: l’Europa deve fare politiche che puntino alla crescita e non solo sul rigore. Il cambiamento in Francia può essere l’inizio di un cambiamento necessario nella Ue?

Il cambiamento in Francia e in Europa è indispensabile. La Francia deve riprendere il suo ruolo di cemento comunitario con l’Italia e con la Spagna. Un asse a tre che non si oppone alla Germania – nessuno fa questo discorso – ma propone alla stessa Germania e all’Europa un progetto di rilancio credibile. Bisogna considerare che continuando con questa politica basata sull’austerità, solo sull’austerità, andiamo a finire in malora. L’Europa rischia di avere dei problemi gravissimi.

Hollande propone anche una tassa patrimoniale del 75% sui milionari.

Io so che il capitalismo basato solo sulla finanza mette fuori gioco l’economia reale. Sono aspetti deteriori su cui ragionare.

In questo senso potrebbe aiutare la sua proposta lanciata dalle colonne del Sole 24 Ore di creare degli eurobond per finanziare le infrastrutture europee?

L’importante è muoversi. Se si vuole che la parola crescita abbia un significato bisogna che si passi a un rafforzamento sostanzioso dei poteri della Banca centrale europea e all’emissione dei tanto citati eurobond.

L’Europa è ferma. In ciò ha una responsabilità anche il suo successore alla guida della commissione europea Barroso?

Rispondo da italiano, come si diceva per don Abbondio: «Il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare».

Il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha detto che non si ricandiderà lamentando l’influenza eccessiva dell’asse franco-tedesco.

Ha ragione. Lo ripeto: Francia, Italia e Spagna devono fare un asse a tre per rilanciare l’Europa, aiutando la Germania a non fare tutto da sola.

Dopo Juncker alla guida dell’Eurogruppo sembra possa arrivare il ministro tedesco dell’Economia Wolfgang Schauble, l’uomo sulla sedia a rotelle che tiene in piedi l’Europa…

Quando ero presidente della Commissione era un grande europeista. Mi aspetto qualcosa di buono da lui.

Schauble vorrebbe tassare le transazioni e le rendite finanziarie. Un tentativo di limitare le mosse speculative sul debito europeo. I tedeschi la vogliono, gli inglesi no.

L’idea di una Tobin tax all’europea sta lentamente entrando. Più passa il tempo e più sembra essere un’idea condivisa. Certo, non si può andare avanti così. Non è possibile che il capitalismo finanziario speculi sull’economia reale, sul destino delle aziende, sul futuro di milioni di persone.

Con la crisi economica il sogno europeo si è trasformato in un incubo?

Il rigore è necessario ma non sufficiente. Se tu non offri una via di uscita alla crisi, i piani di austerità sono dei rimedi nel breve termine che rischiano di essere strumentali. Curano il malato ma non lo guariscono. Il vero problema è che oggi i singoli Paesi sono troppo esposti davanti ai mercati finanziari, non hanno la forza per opporsi. O sei un pesce grande, come Stati Uniti e Cina, o i mercati ti mangiano. Con la crisi del debito i singoli Paesi europei hanno di fatto perso la loro sovranità. È cambiato il mondo.

Intanto l’Europessimismo cresce. In Grecia, la frammentazione politica che probabilmente uscirà dalle urne rischia di condannare il Paese alla ingovernabilità. In Francia, Marine Le Pen al primo turno ha avuto un successo impensabile…

Le faccio io una domanda. Perché secondo lei fanno meglio gli euroscettici di Londra? Stanno meglio di noi gli inglesi?

No.

Ebbene, oggi sembra che la finanza valga di più delle nazioni. Ed è una cosa inaccettabile. Di certo è la fine di un periodo storico e se nessuno vi pone rimedio, l’Europa rischia davvero l’implosione. Bisogna trovare dei freni alle storture dei mercati, al capitalismo malato.

L’euro non è stato un progetto troppo ambizioso?

È stato un miracolo politico. E per sette anni la moneta unica ci ha protetto in un modo straordinario. Bisogna andare avanti.

Come giudica la cura dei conti italiani messa in atto dal Governo Monti?

Monti sta facendo il possibile ma purtroppo deve operare in questo contesto.

Le misure del governo Monti sembrano non essere sufficienti per evitare i rialzi dello spread. Non basta evocarla la crescita perché si materializzi… Il discorso non è solo italiano ovviamente…

È vero, le politiche nazionali, pur se fondamentali, non sono più sufficienti. Io dico, insisto, che bisogna rilanciare l’Europa. Un patto per la crescita e per la finanza. Sulla crescita, Italia e Spagna devono chiedere al prossimo presidente francese, chiunque esso sia, di fare fronte comune per sviluppare una politica industriale europea. D’altra parte noi vinciamo la concorrenza asiatica solo se creiamo un grande cluster industriale europeo. Un cluster che avrà certamente come centro la Germania ma che non potrà funzionare senza gli altri partner europei.

Come se ne viene fuori dalla crisi del debito?

Per superare questa crisi drammatica, che è la più grave dal dopoguerra, e immaginare una nuova stagione di benessere bisogna avere il coraggio e la visione dei padri fondatori. L’Europa insomma non si salva con le sue divisioni: non è quello che ha costruito l’Europa che ha creato la crisi ma quello che non ha ancora costruito.

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