Stati Uniti d’Europa oppure usciamo dalla Storia
Prodi: «Uniti oppure l’Europa esce dalla storia»
Intervista di Alberto Orioli a Romano Prodi su Il Sole 24 Ore del 8 giugno 2012
«Apprezzo e condivido l’iniziativa del Sole 24 Ore e il Manifesto per gli Stati Uniti d’Europa. È l’approdo inevitabile per l’Unione Europea». Il cuore di Romano Prodi, ex presidente della Commissione europea, batte in questa direzione. Ma la testa non rinuncia a qualche distinguo: «Quando si parla di Stati Uniti d’Europa preferisco porre l’enfasi non tanto sulla terminologia, di assonanza un po’ troppo americana, quanto piuttosto sul significato profondo di una struttura indistricabile tra i Paesi europei che finalmente consenta all’Europa di capire davvero quale sia il suo effettivo posto nel mondo e dove vada la globalizzazione».
Gli Stati Uniti d’Europa restano la meta.
Il 28 e 29 giugno è in programma un vertice importante per la sopravvivenza stessa dell’euro. Sarà la volta buona?
In questa fase il sostegno più grande dell’Europa è l’istinto di sopravvivenza. Di sopravvivenza dell’Europa, non dei singoli Paesi, perché solo l’Europa vuol dire sopravvivenza. Senza Europa nessuno sopravvive. Siamo come gli Stati italiani del Rinascimento che, non unendosi tra loro, hanno cancellato l’Italia dalla carta geografica per secoli. Siamo a un fondamentale tornante della storia, non possiamo mancare l’appuntamento. Quanto al vertice del 28, ho avuto troppe delusioni dai 25 (o forse 26 ma ho perso il conto) cui ho preso parte direttamente. Siamo al gong, alla fine di un grande round, ma vorrei risparmiarmi ogni delusione. L’Europa negli ultimi tempi ha dimostrato la più incredibile fantasia nel rinviare i problemi e nel non volerli affrontare alla radice. Mi auguro che il senso di urgenza oggi aiuti a cambiare atteggiamento.
La cancelliera Merkel dice: unione politica anche con Europa a due velocità.
Siamo al paradosso di una cancelliera tedesca che ogni giorno si richiama a idee europeistiche a parole salvo poi, nei fatti, spingere la sua politica anti europea tanto avanti da rendere impossibile l’uso degli strumenti indispensabili, in questa fase, per uscire dalla crisi. Nuovo ruolo della Banca centrale ed eurobond sono ormai le premesse per mettere in campo politiche concretamente europeiste.
Ma servono anche politiche comuni…
In altri tempi si poteva pensare all’esercito europeo, alla difesa comune, alla sforzo per unificare i servizi diplomatici, ma adesso la situazione è talmente deteriorata che, per raggiungere gli obiettivi politici indicati dalla Merkel, è inevitabile usare quegli strumenti che la stessa Merkel non vuole nemmeno sentire nominare.
A lungo si è parlato della creazione della cittadinanza europea, di un popolo europeo. Le opinioni pubbliche sembrano più convergenti che in passato. Qual è la sua percezione?
Quella che viene descritta superficialmente come distanza tra popoli e governanti in Europa trova una spiegazione molto semplice: i governanti europei hanno per 10 anni voluto scientificamente aumentare questa distanza.
Qualche esempio?
Oggi si chiede sorveglianza unica sulle banche, ma in passato proprio Francia e Germania sotto la presidenza italiana del Consiglio d’Europa hanno negato una sorveglianza unica sui bilanci degli Stati, cosa assai più semplice. Si dice: serve un demos europeo, un popolo, ma per anni si sono lesinati i fondi per il progetto Erasmus che è il vero strumento con cui l’Europa può creare una nuova cittadinanza consapevole e omogenea. Mi fermo: si potrebbe continuare nel denunciare quello che, di fatto, è il grande fariseismo di chi ha dovuto accettare a denti stretti l’euro.
Che effetto le ha fatto leggere l’accorata perorazione europeista (anche con un po’ di autocritica) di Joschka Fischer?
Mi ha molto colpito. È stata un’uscita molto coraggiosa e forte. Dimostra grande senso politico e grande capacità di capire dove va il flusso della Grande Storia. Ma non è il Fischer di qualche anno fa: era partito più prudente sui temi dell’Europa. Ora propone la limitazione dei poteri della Commissione, evidentemente ha capito che siamo sull’orlo del baratro.
Torniamo all’Europa politica a due velocità.
Io parlerei di Europa a più velocità. Lo stesso concetto che è stato applicato all’euro: significa che su specifiche iniziative non tutti i Paesi aderiscono o possono aderire; non è una novità nella storia dell’Unione Europea. L’idea della doppia velocità, però, è insidiosa perché sottintende una divisione quasi sistemica e predefinita tra Paesi. Bisogna immaginare una struttura variabile che, alla fine, lasci sempre aperta la porta per l’ingresso dei Paesi che si adeguano ai nuovi standard. Non deve passare un’idea di club chiuso. Il tema delle diverse velocità deve comunque restare perché è figlio della fine dell’unanimismo.
Dunque serve un’Europa che decida a maggioranza?
L’Europa futura, se vuole sopravvivere, deve finire con la prassi vergognosa dell’unanimità. Questo atteggiamento ha impedito ad esempio una politica estera degna di questo nome: se l’Europa, sui più delicati temi globali e nelle zone dove sono presenti le più rilevanti tensioni internazionali, non ha voce, non si vede, non conta è perché ancora ci sono divergenze tra i singoli Paesi. E questo è un danno grave per gli equilibri mondiali. Ad esempio perché renderà sempre meno vicino l’ingresso della Turchia nell’Europa. Ankara elabora politiche estere con impressionante velocità e in modo del tutto indipendente su quadranti delicati come ad esempio l’Iran o il Medio Oriente assumendo un ruolo sempre più influente, anche più influente della stessa Unione Europea.
Parliamo del ruolo della Bce: non può non essere uno dei bracci operativi più rilevanti per la nuova Europa. Come deve cambiare?
Bisogna andare avanti sulla sorveglianza unica per le banche come ha suggerito anche Mario Draghi. Ed è un bene che su questo punto anche la Germania si sia già espressa favorevolmente. Per il resto la Bce deve diventare come qualsiasi altra banca centrale di qualsiasi altro Paese. Insomma, la Bce deve diventare come la Fed, prestatore di ultima istanza e senza i vincoli di oggi, peraltro brillantemente gestiti da Draghi fino al limite. Lo hanno criticato perché usava un cerotto e non una terapia strutturale per il sistema bancario, ma, dati i vincoli dello statuto Bce, era inevitabile agire con strumenti temporanei, ma almeno si è evitata la catastrofe; ci sono stati ondeggiamenti, ma almeno l’Europa ha guadagnato tempo per riflettere sui suoi errori e per cambiare schieramenti politici.
Le banche spagnole vanno aiutate?
Credo che un aiuto alle banche spagnole non squilibrerebbe in modo radicale la politica debitoria di Madrid, anche se l’aggravamento degli ultimi tempi è stato consistente, non bisogna dimenticare che la Spagna partiva da basi molto basse.
Come si farà sentire l’effetto Hollande?
Credo che il senso di un cambio di marcia più europeista si stia già facendo sentire, ma se la Germania deve fare passi avanti sulla questione del debito europeo, la Francia deve cambiare atteggiamento sul tema delle cessioni di sovranità. Non dimentichiamo che Hollande fa parte della corrente europeista dei socialisti francesi, ma il suo partito non ha avuto remore nello schierarsi tutto contro l’Europa nel famoso referendum sulla Costituzione. Per Germania e Francia comunque l’appuntamento è storico. Nessuno può permettersi di mancarlo, altrimenti l’Europa sarà out per lunghissimo tempo.
E come vede l’Italia? Gioca un ruolo?
Credo che il ruolo dell’Italia sia cresciuto molto negli ultimi mesi. È un ruolo fondamentale e importantissimo per costruire una piattaforma unica sui più delicati temi europei di cui abbiamo parlato finora, che sia frutto del miglior compromesso possibile. Un disegno che includa anche la Spagna, che ha un problema più grave del previsto in tema di bolla immobiliare, e un problema di debito che tuttavia partiva da basi ben più ridotte di quelle dell’Italia.
Che ne sarà della Grecia?
Siamo tutti greci. Ci salviamo o ci danniamo tutti insieme.
È ancora credibile il sogno dell’Europa federale?
Certo, ma prima bisogna risolvere le emergenze. Bisogna approfittare del fatto che i nostri stessi concorrenti nel mondo sono terrorizzati da un eventuale disfacimento dell’euro. Cina e Usa ci invitano a ridare slancio all’economia, a ritrovare nuova coesione, a rinsaldare la fiducia nella nostra moneta. Poi bisogna spiegare alla Germania che anche un euro a due velocità non converrebbe all’export di Berlino. L’euro tedesco avrebbe un tasso di cambio rispetto all’euro italiano non a 1,20, ma a 2,20: si innescherebbe una competizione feroce nelle esportazioni fuori Europa e la Germania perderebbe immediatamente competitività nelle esportazioni verso di noi. I tedeschi devono persuadersi che l’Europa è un vantaggio anche per loro.
I tedeschi non si persuadono che gli eurobond non siano solo un modo per caricare sulle loro spalle il debito dei Paesi meno virtuosi.
Prima bisogna uscire dalla teologia. Se ai tedeschi si continua a dire che eurobond significa fregatura, nei sondaggi, i tedeschi – a stragrande maggioranza – continueranno a dire che non li vogliono. Ma se invece si discute senza nominalismi sui rimedi concreti per rilanciare lo sviluppo e fermare la speculazione non si può non arrivare agli eurobond o come si vogliano chiamare. Bisogna lavorare di più per essere credibili con i tedeschi nel mettere a disposizione le garanzie necessarie per evitare che su di loro gravino pesi insostenibili. Lo abbiamo detto con chiarezza: siamo pronti a mettere sul tavolo l’oro e altri asset pubblici per dimostrare che ci impegnamo sul serio. Ma prima deve cominciare la discussione preliminare, poi si può entrare nel dettaglio degli strumenti: è fondamentale cominciare perché altrimenti la speculazione continuerà a fare il suo gioco colpendo Paese dopo Paese; dobbiamo capire che la dimensione speculativa internazionale è molto più grande delle capacità di qualsiasi Paese di reagire.
Non le sembra un po’ “peloso” l’atteggiamento americano verso l’Europa e la responsabilità della crisi?
Gli Stati Uniti sono stati bravissimi nel rovesciare su di noi la responsabilità della crisi. È la conferma e il segno di cosa significhi avere politiche forti e indirizzo unitario, cosa che l’Europa, come noto, non ha affatto. Quello degli Usa è un atteggiamento improntato all’ipocrisia della campagna elettorale: da un lato Obama ci chiede di fare di più per la crescita e teme un’Europa in crisi, dall’altro dice che farà di tutto per non cadere nei vizi europei. Insomma, doppio salto mortale carpiato. Non si possono accreditare virtù che l’America stessa non ha mai praticato.