Sulla disunità che unisce l’Italia
Sulla disunità che unisce l’Italia
Intervista di Carmela Maccia a Romano Prodi su Cooperazione del 22 febbraio 2011
Il professore che ha accompagnato l’Italia nella zona euro. Abbiamo parlato di nord, di sud, di federalismo e ruolo dell’Italia.
Ricorrono i 150 dell’Unità d’Italia. Qual è il suo giudizio, il suo bilancio storico?
Il punto interrogativo a fine domanda mi impone una duplice risposta: in primo luogo l’Italia, tra i grandi paesi europei, è stato l’ultimo ad unirsi; in secondo luogo era un paese fortemente diversificato e diviso, dove le autonomie locali erano fortissime. Nel Risorgimento l’Italia è stata unita da una «élite» e non da un movimento di popolo: persino le grandi correnti popolari dei socialisti e dei cattolici erano rimasti estranee al processo di unione. Ciò spiega la «disunità» d’Italia: tuttavia credo che l’Italia sia un paese unito, basti pensare che di fronte ai grandi drammi della storia (due guerre mondiali, il terrorismo degli anni Settanta, le mafie) e alle grandi sfide di oggi (l’euro), il paese si è sempre mostrato unito, più degli altri paesi europei. C`è dunque una storia di diversità, ma anche di unità.
Dall’esterno, la ferita tra il Nord e il Sud è sempre più profonda e dà l’immagine di un paese spaccato in due, senza valori condivisi…
Credo invece che i valori siano condivisi e siano i medesimi degli altri paesi europei: famiglia, democrazia, tolleranza e che le divisioni, le spaccature, le intolleranze stiano calpestando tutte le democrazie europee. In Italia ci sono due anomalie che accentuano l’interpretazione di questi valori: una è la differenza nord-sud, che il flusso migratorio dal meridione verso il settentrione ha però diluito; l’altra è che il sud è ancora vittima di antiche eredità come fu il brigantaggio, che porta con sé anarchismo e antistato. Un’eredità pesante che tuttavia dimostra di avere anticorpi forti quando si tratta di lottare contro le criminalità organizzate, il terrorismo…. Certamente il prolungarsi di questo peso della storia alimenta un sentimento più pericoloso: lo scetticismo nei confronti del potere.
Qualcuno ha detto che l’Italia si riunisce ormai solo sotto il tricolore degli stadi…
Non credo che il patriottismo popolare sia poi così negativo. Si tratta di manifestare entusiasmo nei momenti di festa. Noi abbiamo un’eredità di divisione che rende complessa la manifestazione del patriottismo che pure non manca. Nel secondo dopoguerra non abbiamo potuto manifestare una forte unità, perchè la politica italiana era sostanzialmente dominata dall’estero, perché la «Convenzione ad Excludendum» (tacita intesa tra alcune parti sociali, economiche o politiche, che escludeva il partito comunista da qualsiasi forma di governo) ha lacerato lo spirito degli italiani. In merito amo ripetere che l’Italia era l‘unico paese europeo diviso da un muro al suo interno. Il muro non divideva il paese in due, ma l’anima di un solo paese. Il problema si è riprodotto dopo il 1989 quando la parola «comunista» è stata strumentalizzata per dividere il paese. Un aspetto interessante: oggi nessuno al mondo ha più paura del comunismo, in Italia invece si riproduce una divisione anacronistica, ma strumentale per vincere le elezioni. In questo momento in Italia vi è un disegno politico in cui la conservazione del potere ha tutto l’interesse a frammentare il paese.
Negli ultimi tempi, si parla molto di federalismo: si potrebbe immaginare un’Italia con un modello simile a quello svizzero?
Il federalismo elvetico non è percorribile in Italia, perché esso deriva da una storia profonda e collaudata di autonomie locali che adagio, adagio si sono messe insieme. In Italia siamo in una situazione opposta, cioè di uno Stato nazionale che fa un passo indietro e deve farlo con regole nuove, che non sono inserite nell’esperienza dei cittadini e degli amministratori. Un federalismo sano esige uno stato unitario forte, le regole federali necessitano un arbitro forte, perché si tratta di un esercizio di democrazia di grande responsabilità in cui la mia autonomia ha conseguenze sulla tua. Il messaggio di federalismo che si dà in questo momento agli italiani è quello di un federalismo self service: il federalismo non è un self service. E nei progetti che io vedo non riesco a capire chi pagherà.
Malgrado i suoi 150 anni di storia, nelle relazioni internazionali l’Italia è tuttora un nano politico: come mai?
Fino alla caduta del muro di Berlino, i paesi che avevano perso la guerra: Giappone, Germania, Italia hanno subito la nanità. Questo ha permesso loro di muovere energie all’interno dei propri paesi, quindi un fortissimo sviluppo economico. Dopo il 1989 la Germania forte del suo successo economico gioca il ruolo di una maggiore autonomia politica. In conseguenza di ciò tutta l’Europa viene terremotata. In Italia invece la persistente divisione politica e la oggettiva minor forza economica del paese impediscono di uscire dalla nanità. Io ho visto possibile negli ultimi anni la rinascita del mezzogiorno e quindi dell’Italia perché il mondo si è rovesciato: l’Italia è stata spiazzata dalla prima globalizzazione, che è stata la scoperta dell’America. L’economia del Mediterraneo si è spostata verso l’Atlantico e verso il nord. La seconda globalizzazione (che stiamo vivendo) vede protagonista l’Asia che attraverso il canale di Suez riporta il Mediterraneo al centro del mondo. Il ragionamento è di una banalità estrema, ma non interessa a nessuno, perché in Italia il ciclo economico non corrisponde a quello politico. Finchè il calendario elettorale si limiterà a fare e a disfare coalizioni mutanti di breve periodo si continuerà ad avere un governo che si cura solo dei suoi problemi interni, i problemi veri dell’Italia non avranno soluzione.
Per la maggioranza degli italiani, lo Stato rimane soprattutto il nemico da combattere e raggirare: perché?
Lo Stato italiano è nato da una «élite», che ha lasciato fuori le masse, alimentando di generazione in generazione una sorta di estraneità. Lo Stato diventa nemico, in tutti quei paesi in cui la politica non sa indicare dei grandi obiettivi comuni. Ciò aumenta lo scetticismo della cittadinanza verso lo Stato.
L’Italia è ricca e apprezzata per il suo umanesimo, i suoi monumenti e le testimonianze storiche. In quest’ultimo secolo però più che valorizzarli sembra che li si lasci andare in rovina. Non è un suicidio?
Questa è la conseguenza diretta dell’assenza di obiettivi comuni. La valorizzazione della cultura, dell’arte è un progetto di lungo periodo, capace di sfruttare il Bel Paese come una risorsa che implica la partecipazione di tutta la società, dal professore di storia dell’arte, alla guida turistica, al ristoratore, al cameriere. Coinvolge quindi la collettività, presume un’amminstrazione e un controllo del territorio forte.
Molti stranieri ammirano «l’arte di arrangiarsi» degli italiani, la loro capacità creativa. Per 150 anni ha funzionato; e in futuro?
Più che di «arte di arrangiarsi» si tratta di una grande capacità al sacrificio individuale. In fondo di fronte al mancato funzionamento della struttura collettiva essa dimostra una vitalità profonda, che a volte porta con sé l’anarchismo, ma spesso si esprime con il sacrificio della famiglia, dei nonni, degli zii. C’è dunque un’«arte di arrangiarsi» virtuosa ed una viziosa. Naturalmente in un mondo globalizzato questa individualizzazione dei comportamenti per il bene e per il male avrà sempre meno efficacia.
L’Italia è tra gli osservati speciali dell’Ue. Sono reali i rischi di una crisi finanziaria alla stregua di Grecia e Irlanda?
I dati economici dell’Italia di oggi non sono molto diversi rispetto a quando è stato introdotto l’euro. Abbiamo il peso di un debito enorme, ma abbiamo un deficit che è tra i minori rispetto agli altri paesi europei. Inoltre, nonostante la crisi economica, la propensione al risparmio delle famiglie italiane è impressionante e siamo stati tra i paesi meno toccati dalla crisi finanziaria. Capisco che in politica possano esservi pulsioni suicide, ma la forza economica dell’Europa e dell’Italia passa dall’euro.
La recente crisi europea e dell’euro rafforzano lo scetticismo degli svizzeri verso l’Ue. Che cosa dice come ex presidente della commissione europea agli elvetici?
Nella funzione di presidente della commissione europea, ho trattato tantissime volte con gli svizzeri ed ogni volta ero gioiosamente vittima e controparte del pragmatismo elvetico. Sebbene i confronti fossero durissimi mi trovavo bene, perché anch’io sono orientato al risultato. Definisco «saggezza» la via dei rapporti progressivi, perché la Svizzera ha una storia secolare di continuità, non ha vissuto guerre devastanti, pertanto è necessario che la vostra «gente» si avvicini lentamente all’idea di giocare un ruolo più attivo nell’Unione europea. La Svizzera non ha un atteggiamento di censura e di ostilità nei confronti del progetto europeo, piuttosto la preoccupazione è forte se il franco si rafforza troppo. Il rapporto tra Europa e Svizzera continuerà con un’assunzione di decisioni in cui c’è convenienza reciproca. E poi …. se sono rose fioriranno.
Gli ultimi 150 anni di storia hanno visto partire dall’Italia molti emigranti, forse i primi veri cittadini europei. L’Italia non sembra però utilizzare questo patrimonio, anzi: molti giovani continuano a partire…
Non credo che il patrimonio degli emigranti debba essere sfruttato. Quando io vedo i nostri emigranti in Germania, in Svizzera diventare cittadini tedeschi o svizzeri sono contento, perché vuol dire che si sentono a casa. È necessario valorizzare questo patrimonio attraverso i rapporti culturali, ma guai ad aiutarli a sentirsi stranieri nei paesi in cui arrivano, perché questo li renderebbe infelici, fuori dal flusso economico, sociale e politico del paese di adozione. Il principio vale anche per i migranti che giungono in Italia. Sentire un bambino cinese o africano parlare bolognese mi inorgoglisce, perché vuol dire che è integrato. Altra cosa è invece che l’Italia è un paese di immigrazione di basso livello ed emigrazione di alto livello. I tagli orizzontali alla cultura, alla scuola, alla ricerca creano questa situazione di fuga dei cervelli. Ma che cosa devono fare le eccellenze, se il paese non ha una politica industriale seria, se la ricerca è un optional, se la scuola, l’università sono vittime dei tagli alla spesa pubblica?
Guardiamo ora nella sfera di cristallo: dove sarà l’Italia fra 50 anni?
Cinquant’anni sono sufficienti per vedere l’Italia come membro attivo dello Ue, con un compito preciso: rappresentare il nuovo sviluppo del Mediterraneo verso la sponda sud e verso l’Asia. Compito che io avevo dato all’Italia e che rimane un punto fermo, anche se in questo momento non c’è una volontà politica in Italia e in Europa a mettere in atto questo progetto.
Infine mia nipote di tredici anni mi ha pregato di chiederle: quale progetto politico potrebbe convincere Romano Prodi a scendere ancora una volta nel campo minato della politica italiana?
Il mio disegno politico di convogliare le forze riformiste in una grande coalizione non è passato, sono stato disarcionato dalla mia coalizione e non dall’opposizione di allora. Oggi mi occupo di un progetto ambizioso: l’unione di 53 paesi africani. Far passare il principio della «cooperazione» attraverso la Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli che presiedo è un esercizio di democrazia che si prolunga avanti nel tempo.