Datagate: è in gioco non solo la libertà ma anche l’incolumità di tutti noi
Nella guerra cibernetica è in gioco la libertà
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 25 ottobre 2013
Con ondate che si succedono con crescente intensità si ha notizia di controlli illegittimi sulle comunicazioni da parte di alcuni Paesi a danno di altri. Ciò infrange non solo le regole giuridiche internazionali ma gli stessi diritti fondamentali dei cittadini.
In tutti questi casi per un po’ di tempo ci si scandalizza, si moltiplicano le proteste diplomatiche e poi tutto ricomincia come prima. Questi comportamenti vengono solitamente giustificati in ragione della pur santa necessità della guerra al terrorismo, anche se il terrorismo spesso c’entra ben poco e sono invece in gioco interessi di tutt’altro tipo.
Nella mia vita politica anch’io mi sono trovato,in un ruolo forzatamente passivo, a fare i conti con questi sofisticati sistemi di controllo, pur essendo totalmente ignorante degli aspetti tecnici sottostanti. Posso infatti, a questo proposito, portare un esempio particolarmente significativo.
Circa dieci anni fa, quando ero presidente della Commissione Europea, mi trovavo in visita ufficiale a Gerusalemme. Mentre stavo facendo colazione all’Hotel King David ricevetti sul mio portatile una telefonata dall’allora Presidente dell’ENI Gros Pietro. Per essere sicuro di non essere ascoltato, uscii sotto il portico dell’Hotel dove nessuno poteva sentire quanto ci dicevamo. Egli mi parlò dell’utilità di intervenire presso un Governo di un Paese produttore di petrolio a difesa degli interessi dell’ENI stessa, in quel caso in concorrenza con un’impresa americana per un’importante concessione. Chiesi al presidente dell’ENI se non vi fosse in competizione alcun europeo perché in questo caso,come presidente della Commissione Europea, mi sarei dovuto astenere dall’intervenire. Mi assicurò che il produttore americano era l’unico concorrente rimasto. Ascoltai con cura le ragioni che rendevano opportuno l’intervento e promisi che, appena tornato a Bruxelles, avrei fatto quanto mi si chiedeva. Nel caso in questione, tuttavia, non ce ne fu bisogno perché l’ENI ottenne la concessione prima che io avessi il tempo di farmi parte diligente. Fin qui tutto normale. Mi destò tuttavia una certa sorpresa vedere che, poche settimane dopo, l’intero verbale della conversazione veniva pubblicato su un settimanale a forte tiratura, preceduto dalla precisazione “da nostre fonti americane riceviamo”…
Debbo dire che la trascrizione era perfettamente fedele fino nei minimi particolari ma, anche per questo motivo, trovai la cosa conturbante e ne chiesi perciò spiegazione ai tecnici della Commissione di Bruxelles. Mi riposero che il suono della mia voce era stato probabilmente inserito nel grande cervello anglo – americano chiamato Echelon e che quindi ogni mia conversazione veniva automaticamente registrata da qualsiasi apparecchio telefonico fosse generata, compresi i posti pubblici più lontani ed incluso il caso in cui avessi avuto il raffreddore o avessi messo una molletta attorno al naso per modificare la mia voce.
Questo ed altri infiniti episodi a danno di molti Paesi (esclusi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna) provocarono allora reazioni e proteste da parte della Commissione e del Parlamento Europeo, ma tutto poi tornò come prima.
Naturalmente qualcuno può con una certa ragione affermare che la lotta contro il terrorismo giustifica ogni violazione di regole, ma venni poi a sapere (anche se non con testimonianza scritta) che il responsabile dell’ENI a New York era stato chiamato dai vertici della società petrolifera americana concorrente per rendere conto delle ragioni per cui si erano permessi di chiedere l’intervento del Presidente della Commissione Europea.
E’ certo che, almeno nel caso in questione, il terrorismo non aveva alcun rapporto con l’illegittimo ascolto di conversazioni telefoniche private.
Gli eventi di questi giorni ci dicono che le deviazioni sono proseguite nel tempo e che, semplicemente, le tecnologie si sono ulteriormente raffinate. Le nuove tecnologie digitali non vengono usate semplicemente per l’accumulazione di informazioni ma anche come veri e propri strumenti di guerra. Non vi è più un convegno di politica internazionale nel quale la guerra cibernetica (la cosiddetta cyber-war) non sia elencata tra le armi più sofisticate dei nuovi conflitti. Non solo spionaggio, ma il potere di fermare la vita di interi Paesi, dal funzionamento delle centrali elettriche alle sale operatorie fino all’intero sistema dei trasporti, aerei in volo compresi. Gli esempi di azioni di questo tipo sono già numerosi, come il blocco delle centrifughe dedicate a preparare il materiale nucleare iraniano da parte di interventi americani o israeliani, fino a una presunta forte interferenza russa nella vita dei Paesi baltici.
Il tutto in presenza di una crescente capacità di fare danni senza alcuna struttura di regolazione.
Per tutti questi motivi mi hanno molto stupito le osservazioni di esperti e uomini politici che hanno ripetuto fino alla noia che si è sempre fatto così e che i potenti hanno sempre cercato di controllare i più deboli. Mi sembra che l’evolversi delle tecnologie ci obblighi a un completo ripensamento di tutte le regole che disciplinano i comportamenti in materia. Non si tratta più di casi isolati. Ormai è in gioco non solo la libertà ma anche la stessa incolumità di tutti noi.