Dopo la follia di Trump, ora è il tempo di ricostruire
“Bisogna affrontare i problemi e le paure della classe media”
Trump ha preso molti più voti di 4 anni fa Perciò esprime qualcosa di profondo dell’anima degli Usa
Un paradosso: i Paesi ex imperiali come Francia e Inghilterra si mostrano incapaci di leadership globale.
Intervista di Fabio Martini a Romano Prodi su La Stampa del 9 novembre 2020
Negli anni vissuti lungo la prima linea della politica internazionale, tra Bruxelles e Roma, Romano Prodi ha incrociato diversi presidenti degli Stati Uniti, coltivando particolare stima per le qualità politiche di Bill Clinton, che il 20 gennaio del 1993 – entrando nello Studio Ovale della Casa Bianca – sulla scrivania trovò una lettera di George Bush padre: “Avrai giorni molto duri, resi più difficili da critiche che penserai di non meritare. Quando leggerai questo biglietto sarai il nostro Presidente e ti auguro ogni bene”.
Un’altra era geologica?
“Trump ha contribuito a rendere più cattivo il mondo ma la tensione contro la democrazia e l’avanzare degli autoritarismi dura da anni. Con la vittoria di Biden ci possiamo concedere un periodo di sosta dalla “follia” e questo ci consentirà di capire se Trump sia stato soltanto un incidente, che ha approfittato di una deriva della storia, aggravandola. Ma facciamo attenzione”.
A cosa?
“Trump ha avuto un’enormità di voti in più rispetto all’elezione precedente. Significa che lui porta avanti qualcosa di profondo che sta dentro l’anima americana. Si dice: ha pagato per la gestione del Covid, ma ha vinto in 9 dei 10 Stati più segnati dal virus. La sua carta forte è stata, e resta, l’inquietudine della classe media e bianca americana sul suo futuro. Non solo tecnologie e globalizzazione che spiazzano la classe media, ma anche la prospettiva che i bambini non bianchi nelle scuole siano presto più di quelli bianchi”.
Spesso gli Stati Uniti fanno da battistrada: il primo governo progressista nella storia italiana, il suo, nasce nel solco del ciclo clintoniano. Riflessi sul nostro populismo?
“Biden nel suo discorso inaugurale è partito con l’Ecclesiaste, che nel terzo capitolo è bellissimo ed è sostanzialmente un invito alla saggezza nell’interpretare il tempo. C’è un tempo per vivere e uno per morire, c’è un tempo per strappare e uno per cucire, c’è un tempo per amare e uno per odiare. Chi fa questo discorso, vuole ricostruire una rete di alleanze dopo l’isolamento dell’America. Vedo Biden ri-firmare Parigi, lo vedo fare un viaggio in Europa entro pochi mesi e tentare di rendere meno sanguinosa la Brexit, per evitare che l’Irlanda torni ad essere un luogo di tensione”.
Qualcuno, con voluto paradosso, sostiene che Biden a suo modo sia un doroteo.
Prodi sorride: “Direbbe l’Ecclesiaste: c’è anche il tempo dei dorotei! Facendo un discorso serio: c’è un tempo della mitezza. Speriamo di essere entrati in questo tempo”.
In Italia, a sinistra prevale una sorta di fatalismo: ci eleggiamo il “nostro” Presidente ma poi nel 2023 passiamo la mano. Se il populismo fosse entrato in crisi, cosa servirebbe per non farlo rialzare?
“Non ritengo che l’Italia sia per definizione un Paese di destra. È un Paese scombinato, ma non per forza di destra. Nel mio caso ho cercato di “ricombinarlo”: ho vinto due elezioni, avendo un centesimo delle risorse del mio avversario e abbiamo prevalso perché avevamo messo assieme obiettivi condivisi. Qui e ora si tratta di interpretare il Paese nelle sue paure. Mettiamola come vogliamo, ma in America ci sono Democratici e Repubblicani. Per l’Italia ci vorrà qualche leader – e io penso che possa arrivare – capace di capire che non si va da nessuna parte con un uomo da solo, o un partito da solo. E che servono alcune idee forti, meditate, serie. In un sistema politico riorganizzato attorno a un polo conservatore e a uno riformista. Altrimenti, avremo sempre qualche “pezzo” di Trump, di destra o sinistra, che impedisce di essere un Paese normale”.
Per rimettere in piedi il Paese dopo il Covid, salvo l’attesa messianica del Recovery, lei non vede un deserto di idee-forti?
“La voce delle categorie oggi sfavorite, va ascoltata, ma dobbiamo cominciare anche a pensare al domani, altrimenti restiamo indietro ancora una volta rispetto agli altri Paesi. Quel che mi preoccupa è che in questi giorni corriamo di emergenza in emergenza – e ne capisco la ragione – ma non vedo la riflessione comune su cosa ci possa portare su un terreno di crescita. Non la vedo proprio. Non si può andare avanti mediando e rincorrendo le richieste, serve una proposta sul dopo. Non è facile ma non vedo la partenza degli investimenti che ci preparino al domani”.
Il debito, per una volta allargato con buone ragioni, come evitare che diventi la palla al piede per chi ha oggi 15, 20, 25 anni?
“La questione mi preoccupa. Il debito che stiamo accumulando può essere giustificabile ma è pesante. Lo si recupera in due modi: inflazione, che non mi auguro, o crescita molto forte, che auspico. Ma non vedo una riflessione su come invertire la tendenza“.
La sfida, anche nostra, con la Cina è destinata ad attenuarsi?
“Ho avuto la fortuna di insegnare in Cina e negli Stati Uniti nello stesso arco di anni. Due Paesi che vivono in modo smisurato il senso dell’impero. Ho visto cambiare la mentalità dei ragazzi in 6-7 anni: questo senso della sfida oramai è embedded: incorporato. La sfida c’è e con Biden sarà più facile regolarla, perché ci sarà maggiore buona educazione. Però la sfida rimane. L’unica cosa patetica è quando il senso dell’impero agisce in chi l’impero non ce l’ha più. Come la Gran Bretagna e talora la Francia. Il comportamento da ex impero stupisce perché impedisce a questi Paesi di essere tra i leader del mondo, legandosi strettamente agli altri Paesi europei. Mentre gli altri interpretano, anche se a modo loro, i drammi della storia, Francia e Gran Bretagna rischiano invece di interpretare il ricordo della storia”.