Il decentramento alle Regioni non si trasformi in autarchia
L’equità che manca – Gli squilibri di una riforma che divide in due il Paese
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 3 marzo 2019
Rinvio o non rinvio del provvedimento sul regionalismo differenziato? Questo è il dilemma che produce l’ennesima tensione al governo.
Eppure, tra le tante decisioni rimandate o sospese che rovinano l’Italia, dalle grandi opere ai processi, in un Paese in cui si cammina sempre verso l’infinito, questo rinvio sull’autonomia regionale sarebbe provvidenziale. Si tratta della proposta con cui tre regioni hanno presentato un progetto rivolto al cambiamento delle loro competenze e delle risorse finanziarie disponibili per fare fronte ai nuovi compiti.
Di per se stesso non vi è nulla di rivoluzionario, dal punto di vista giuridico, perché la nostra Costituzione lo permette.
Inoltre, dopo cinquant’anni, gli istituti regionali avrebbero bisogno di una buona lucidata dato che, in troppi casi, non hanno brillato né per rigore né per efficienza.
La proposta non è quindi sorprendente ma porta con sé molte conseguenze. Essa non può infatti comprendere solo tre regioni: queste infatti si aggiungono alle cinque a statuto speciale e saranno seguite, in ordine sparso, da ulteriori proposte differenziate di Piemonte, Liguria, Campania, Toscana, senza tenere conto delle particolarità del Lazio che, ormai da decenni, si trova a dovere affrontare i giganteschi problemi di Roma capitale.
La legittimazione a portare avanti le proposte di riforma non può inoltre fondarsi sul fatto che due di esse (Lombardia e Veneto) hanno motivato le loro decisioni sulla base di referendum popolari approvati a larghissima maggioranza. Dato che, al di là degli aspetti formali, si chiedeva ai cittadini se si dovesse trattenere in regione una maggiore quantità di risorse finanziarie, non era certo difficile prevedere una larga approvazione popolare, ben oltre l’appartenenza politica dell’elettore.
Non essendo giurista non mi sento di mettere in discussione le basi strettamente normative delle proposte che, nella sostanza, tendono ad avvicinare la legislazione di Veneto e Lombardia (in modo più moderato nel caso dell’Emilia-Romagna) a quella delle regioni a statuto speciale.
La nostra Costituzione contempla in effetti la possibilità che le leggi dello Stato prevedano, pur tenendo conto dei compiti riservati al potere centrale, un trattamento differenziato alle regioni a statuto ordinario. Si tratta però di un processo che non può essere portato avanti caso per caso, senza considerare l’impatto sulle altre regioni e sulla struttura complessiva dello Stato.
Se è eccessivo parlare di “secessione dei ricchi” è altrettanto vero che questo processo non può essere portato avanti senza calcolare le conseguenze sui meno ricchi, conseguenze evidenti dato che, se maggiori risorse vengono trattenute da alcune regioni, non possono certo essere dedicate ad altre. È infatti palese che la diversità nella distribuzione delle risorse comporta di per se stessa un’asimmetria nelle quantità e nelle qualità del finanziamento e deve essere valutata tenendo conto sia dei principi di efficienza che di solidarietà.
Il rinvio non è infatti casuale ma è la diretta conseguenza del fatto che, appena il dibattito è passato in sede nazionale, il contrasto tra i diversi interessi e questi principi è divenuto evidente, anche se si è manifestato soprattutto nella divergenza degli obiettivi elettorali dei due partiti di governo.
L’avvio del processo di riforma del regionalismo è quindi opportuna ma è necessario mettere in rilievo che tutto ciò richiede una cornice generale di riferimento che preveda le regole necessarie affinché il decentramento non si trasformi in anarchia.
Il che, come afferma Marco Cammelli in uno scritto che risale al luglio scorso, presuppone “un impianto generale solido e riconoscibile, basato su un centro in grado di garantire funzioni strategiche e di sistema, comunicazioni e standard, sedi collaborative e azioni di supporto alle realtà più deboli, di cui i trasferimenti e le finalità perequative sono solo una parte.”
Per tradurre tutto questo in esempi concreti è necessario, in via prioritaria, che il legislatore nazionale determini almeno i Livelli Essenziali delle Prestazioni ( i così detti LEP) che sono il punto di partenza per determinare i fabbisogni “standard”, cioè i fabbisogni di tutti i cittadini a qualsiasi regione essi appartengano.
Il regionalismo differenziato esige cioè un apparato centrale solido che vigili sul modo di concretizzarsi delle autonomie e garantisca, nello stesso tempo, che l’autonomia di alcuni non porti allo sgretolamento dell’intero sistema. È bene ricordare, infine, che se non si preciseranno queste regole, si andrà incontro a innumerevoli conflitti di fronte alla Corte Costituzionale per stabilire se le decisioni prese siano in conflitto con i principi fondamentali della Repubblica Italiana. Il che bloccherebbe a lungo l’attuazione di ogni riforma.
Approfittiamo quindi di questo rinvio non per affossare il regionalismo differenziato ma per renderlo sicuro di fronte alle evidenti obiezioni giuridiche e più rispondente ai principi di equità e solidarietà che sono alla base delle nostre regole di convivenza.