Ius scholae, perché aiuterebbe il Paese

Ius scholae, perché aiuterebbe il Paese

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 24 agosto 2024

In tutto il mondo si moltiplicano le analisi che dimostrano come una delle più efficienti leve per lo sviluppo e la crescita sia l’attrazione degli specialisti a diversi livelli, provenienti da ogni parte del pianeta. Specialisti di tutti i tipi, sofisticati e meno sofisticati, non solo perché ricoprono posti di lavoro scoperti, ma anche perché, portando differenti esperienze e contatti, innalzano anche l’efficienza dei lavoratori locali.

Per citare una sola di queste ricerche, prodotta dall’Università di Harvard in riferimento al contesto americano, gli specialisti stranieri costituirebbero il 16% della mano d’opera, ma sarebbero gli autori del 32% delle innovazioni.

Le tensioni politiche degli ultimi anni hanno reso più difficile lo scambio virtuoso che vi era in passato fra Cina e Stati Uniti. I due paesi stanno riducendo al minimo i loro scambi culturali e scientifici, con un indubbio danno al progresso. A parte questo caso, il processo di attrazione di talenti procede in tutto il mondo.

Come riferisce l’Economist, persino Trump, nonostante le sua polimmigranti, è arrivato a dire (anche se non credo manterrebbe questo impegno) che se uno straniero si laurea in un’Università americana dovrebbe avere il diritto di ricevere, insieme al diploma, una “green card”, cioè un diritto di residenza permanente negli Stati Uniti, con accesso illimitato al mercato del lavoro.

Ancora più interessante è notare che l’attrazione dei talenti si fonda più sulla rimozione degli ostacoli per ottenere cittadinanza e lavoro che non su incentivi economici e fiscali. Già sotto quest’aspetto il nostro paese si comporta in modo inutilmente repellente dato che, per ottenere un visto per un lavoratore straniero, occorrono, a discapito delle regole, in media 232 giorni. Ossia almeno tre volte in più rispetto ai paesi europei concorrenti, per non parlare dei 32 giorni di Israele e di una settimana di Dubai.

Per restare in Italia, fa certamente riflettere il fatto che gli studenti universitari stranieri non arrivino al 6%, mentre sono il 14% in Francia e Spagna. Stessa differenza vi è tra i professori ordinari e associati stranieri che, nelle Università italiane, superano appena l’1%. Bisogna inoltre considerare che una buona parte degli stranieri che studiano in un paese finisce col rimanere in esso anche dopo la laurea o il diploma: negli Stati Uniti questo dato supera il 40%.

La situazione italiana produce un progressivo isolamento dal flusso delle innovazioni che fertilizzano la scienza e l’economia mondiale e che, oltre al livello salariale ormai miserevole, fanno dell’Italia uno dei minimi importatori e dei massimi esportatori di talenti. Basti confrontare il ruolo straordinario che i nostri specialisti svolgono negli Stati Uniti e negli altri paesi europei con il contributo assolutamente marginale che i talenti stranieri offrono alle nostre Università e alle nostre strutture produttive, pubbliche o private.

La doverosa apertura del nostro paese al progresso mondiale deve partire quindi da una politica di attrazione di studenti e docenti stranieri, con la rimozione degli ostacoli al loro ingresso, con la costruzione delle infrastrutture per accoglierli e con un’ulteriore diffusione degli insegnamenti in inglese. Sono obiettivi che portano, anche direttamente, un vantaggio economico al paese che li mette in atto.

In questo così importante capitolo della vita, in Italia si inserisce in modo diretto la recente proposta della concessione del diritto di cittadinanza agli stranieri che hanno completato un ciclo di studi nel nostro paese: un diritto riconosciuto, anche se non ancora praticato, perfino da Trump.

Non credo che lo “Ius Scholae”, come esso viene comunemente chiamato, sia il traguardo definitivo della nostra politica. Esso lascia infatti aperti altri problemi che solo con un’intelligente adozione dello “Ius soli” potranno essere affrontati in modo simile a quanto stanno già facendo, pur con necessarie limitazioni e adattamenti, gli altri paesi europei.

In un settore in cui non abbiamo mai fatto nulla per non isolarci dal mondo, questo primo passo è estremamente importante e lo dobbiamo assolutamente compiere con la maggiore rapidità possibile.

Non riesco a tollerare che i figli degli immigrati Sikh, che si prendono cura della maggior parte degli allevamenti della pianura padana e che appartengono a una comunità che tiene in massimo conto, e con notevole successo, la cultura della scuola, appena ottengono un diploma o una laurea in Italia, emigrano in Germania, in Canada e, anche se con minore intensità dopo la Brexit, in Gran Bretagna. Non è solo una ragione di salario o di opportunità di lavoro, ma soprattutto la conseguenza del non sentirsi, pur dopo molti anni di permanenza e di condivisione di vita, membri pieni di una comunità.

Spero che anche chi nel suo cuore (come io stesso) vorrebbe di più, capisca che anche un lungo cammino richiede un primo passo.

Mi ricordo sempre che quando da piccolo pretendevo qualcosa di troppo rispetto a quello che si poteva ottenere, mia madre usava ripetere: “è meglio succhiare un osso che un bastone”.

Nel caso dello “Ius Scholae” ritengo che intorno all’osso vi sia anche della buona polpa.

 

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