L’errore di Macron, la Francia e l’impasse delle democrazie

La Francia e l’impasse delle democrazie

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 07 dicembre 2024

Nella vita politica le trappole sono all’ordine del giorno. Nel caso francese, tuttavia, la particolarità sta nel fatto che la trappola in cui il presidente Macron è caduto l’ha preparata lui stesso. Dopo il deludente risultato della sua lista nelle elezioni europee della scorsa primavera, ha sciolto l’Assemblea Nazionale e ha indetto nuove elezioni, nella speranza di ricevere un’approvazione plebiscitaria dal popolo francese. Sono state invece la destra e la sinistra ad aumentare la propria rappresentanza parlamentare, a spese del raggruppamento che fa capo allo stesso Macron.

Tutto questo ha reso estremamente difficile la formazione del governo finito poi, dopo lunghe settimane di trattative, sulle spalle di Michel Barnier.

Data la pesante situazione delle finanze pubbliche francesi, il nuovo primo ministro ha preparato un programma di austerità che prevedeva una contrazione della spesa pubblica di 60 miliardi di Euro, a cui si accompagnava un aumento del peso fiscale di 30 miliardi. Nonostante l’indiscussa abilità da negoziatore di Michel Barnier, abilità dimostrata anche nell’incarico a lui affidato nelle trattative per la Brexit, tutto il fronte dei quattro partiti di sinistra (NFP) si è compattato nell’opporsi ai sacrifici prospettati nel campo della politica sociale e dei trattamenti pensionistici.

Il Presidente della Repubblica pensava però di essere ugualmente appoggiato dalla maggioranza del Parlamento, contando sul fatto che l’estrema destra di Le Pen (RN) non avrebbe mai fatto causa comune con la sinistra. A questo punto è scattata la seconda trappola, in questo caso organizzata da Marine Le Pen che, pur di mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica, si è alleata con gli odiati socialisti e ha votato la sfiducia al governo, nonostante avesse ottenuto, forse troppo tardi, sostanziose concessioni da parte di Michel Barnier.

Naturalmente si discute molto se questa decisione di Marine Le Pen di spingere fino all’estremo l’attacco a Macron, intestandosi così la principale responsabilità della crisi, sia dovuta alla paura che l’impopolarità dei provvedimenti di Barnier ricadesse su di lei o, più prosaicamente, all’obiettivo di anticipare le elezioni presidenziali, in modo da evitare le possibili conseguenze di un procedimento giudiziario per corruzione contro di lei, in un processo che si celebrerà alla fine di marzo.

Si tratta di una spinta per porre una rapida fine al mandato presidenziale che trova un naturale accordo con il leader dell’estrema sinistra Mélenchon, anch’esso desideroso di anticipare il più possibile la sfida per la Presidenza della Repubblica.

Tutto questo è avvenuto mentre il deficit è fuori controllo e il debito pubblico aumenta, così come i tassi di interesse. In ogni caso, dato che Macron non sembra avere alcuna intenzione di dimettersi e non sono possibili nuove elezioni prima di luglio, la formazione di un nuovo governo è indifferibile. Bisogna tuttavia prendere atto che l’accordo fra tanti partiti, dopo infinite tensioni, si presenta molto complicato e che la politica francese, a differenza di quella italiana, non è abituata a queste complicazioni.

Pur concordando sul fatto che la situazione economica è molto seria, che il deficit pubblico è ancora il doppio di quello prescritto dai parametri europei e che i sacrifici futuri dovranno essere corposi, è altrettanto vero che la Francia ha ancora radici economiche e finanziarie molto robuste e non sta per nulla turbando gli equilibri economici europei.

È quindi una crisi politica più che una crisi economica. Tutto ciò non è affatto consolante anche perché le crisi politiche si stanno aggravando in un numero crescente di paesi democratici.

Dove la democrazia era consolidata con la prevedibile alternanza di due tradizionali partiti, come in Germania, Olanda e Spagna, la frammentazione e moltiplicazione dei partiti stessi ha reso necessaria la formazione di coalizioni progressivamente meno omogenee, con il risultato di avere governi sempre più fragili e sempre meno in grado di prendere le necessarie decisioni. Con il crescere del benessere, ma anche delle disparità, dell’immigrazione, delle paure dei cambiamenti, si moltiplica il numero dei partiti e dei movimenti politici. E diventano sempre maggiori le divergenze, più precarie le alleanze e meno efficace l’attività di governo.

Tutto ciò produce l’aumento di coloro che a destra o a sinistra non credono più nella democrazia, alimentando il disorientamento degli elettori, sempre più divisi tra la tendenza all’astensionismo e la tentazione dell’autoritarismo.

Si stia creando una correlazione sempre più stretta fra la crescita delle differenze e delle disuguaglianze prodotte dalle trasformazioni economiche e l’indebolimento delle strutture democratiche. Il caso francese ci obbliga infatti a riflettere sul fatto che la crisi avviene nonostante la presenza di un regime semipresidenziale, pensato proprio per evitare che la frammentazione partitica produca la paralisi dei sistemi parlamentari tradizionali.

Se si considera che la democrazia appare a rischio sia dove è consolidata, come negli Stati Uniti, sia dove è più recente, come in Corea del Sud (paese che più di ogni altro ha fatto proprio il progresso tecnologico e produttivo), c’è da riflettere su come le nostre democrazie possano riconciliarsi con il progresso di un mondo sempre più tentato di affidare il proprio futuro all’autoritarismo.

Questo nella speranza che, dopo la grande celebrazione della ricostruzione di Notre Dame, la Francia riesca a ritrovare quel difficile equilibrio che Macron ha rotto in conseguenza dei deludenti risultati dell’ultimo voto europeo.

 

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Dati dell'intervento

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dicembre 7, 2024
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