Clima: la svolta USA e il naufragio di COP29

La svolta USA sul clima e il naufragio di COP29

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 13 novembre 2024

La mega conferenza mondiale sul clima (chiamata COP29) si è aperta in un gran brutto clima. Prima di spiegarne le ragioni è bene specificare che essa, con la prevista durata di due settimane, si sta svolgendo a Baku, in Azerbaijan, dove stanno arrivando cinquantamila partecipanti provenienti da tutte le parti del mondo. Forse a causa di questa mastodontica struttura e per i costi e le complicazioni organizzative che essa comporta, la COP29 si colloca, così come è avvenuto nello scorso anno, in un paese che fonda la propria economia sulla produzione di gas e di petrolio.

Trattandosi di una conferenza dedicata a costruire una strategia globale per sostituire queste fonti di energia con fonti alternative “pulite”, si tratta già di un’anomalia non facile da spiegare. Il compito diventa ancora più difficile se si riflette sul fatto che lo stesso Azerbaijan ha recentemente approvato un massiccio piano di investimenti per moltiplicare la sua attuale produzione di idrocarburi. Un obiettivo che comporta impegni finanziari di tale dimensione per cui la produzione dei nuovi giacimenti, per essere profittevole, dovrà spingersi ben oltre il 2050, anno in cui, secondo gli impegni presi a Parigi nel 2015, si dovrebbe raggiungere la neutralità climatica, cioè emissioni nette pari a zero.

La contraddizione (e la parallela ipocrisia) appare ancora più chiara se si riflette sul fatto che una delle principali ragioni addotte dal governo di Baku per portare avanti questo progetto deriverebbe proprio dalla richiesta europea di sostituire il gas russo che attualmente arriva in Slovacchia e Ungheria attraverso l’Ucraina.

Il grande evento che rende vicino allo zero il successo di questa conferenza è tuttavia l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, con una politica sull’energia totalmente diversa dal suo predecessore. Non perché la sua campagna elettorale sia stata ampiamente finanziata dai produttori di idrocarburi, dato che risorse ne ha ricevute anche da Elon Musk che, tra le altre tante attività, opera anche nel settore delle automobili elettriche.

La vera ragione è che Trump ha sempre definito i cambiamenti climatici come “una bufala verde”, si è sempre opposto a ogni politica ambientalista, da lui derisa come una “truffa socialista” e si è ugualmente rivolto contro la politica di incentivi alle energie rinnovabili sostenuta dal suo predecessore Joe Biden. È evidente che, a questo cambiamento di politica ambientale, si affiancherà il blocco all’importazione di tutti gli strumenti che utilizzano l’energia solare e eolica, strumenti che sono prodotti quasi totalmente dalla Cina con prezzi e tecnologie ormai inarrivabili.

Se poi teniamo conto del fatto che il programma della COP29 di Baku aveva come punto centrale la messa in atto di un grande progetto dedicato a fornire ai paesi in via di sviluppo le risorse necessarie per adottare le nuove tecnologie verdi (appunto prevalentemente prodotte dalla Cina), siamo costretti a concludere che, data per scontata l’opposizione degli Stati Uniti, il progetto ha ben poche possibilità di andare in porto.

Questo anche perché, in conseguenza della maggiore incertezza sul futuro delle rinnovabili provocata dalla nuova presa di posizione americana, la Cina continuerà a dominare in modo incontrastato le industrie che stanno a monte delle energie rinnovabili.

Di questi cambiamenti si sono già resi conto anche molti di coloro che dovrebbero essere protagonisti della nuova politica per l’ambiente. Non arriveranno perciò a Baku nemmeno importanti leader politici che erano stati protagonisti delle precedenti conferenze, a partire dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dal presidente francese Macron.

E non vi saranno nemmeno i responsabili di alcune delle più grandi istituzioni finanziarie che dovrebbero affiancare i governi nel reperimento delle risorse necessarie per fare più verde il mondo, come BlackRock e la Bank of America.

Questo mentre tutte le strutture dedicate al monitoraggio del clima si apprestano a dichiarare che il 2024 è stato l’anno più caldo tra tutti quelli dei quali abbiamo dati disponibili.

È quindi assai probabile che la conferenza di Baku, invece di dare pratica attuazione agli obiettivi enunciati a Parigi nel 2015, sarà costretta a prendere atto che, con il cambiamento americano, la politica globale sull’ambiente è divenuta sostanzialmente irrealizzabile.

L’Unione Europea, che ne è stata la principale sostenitrice fin dall’inizio, si trova ad essere isolata, non solo per l’impraticabilità di un accordo con la Cina, ma anche perché nemmeno questo impossibile accordo riuscirebbe a reperire le risorse necessarie per portare avanti la politica ambientale che si era faticosamente ipotizzata nelle conferenze degli scorsi anni.

Il rischio che la conferenza di Baku si trasformi in un grande evento di diplomazia turistica è perciò molto grande ed è la prima, anche se non ultima, conseguenza del radicale cambiamento della politica americana nei confronti del resto del mondo. Tutti sappiamo che il problema del clima è un problema globale e può essere affrontato solo con una politica globale. Ci si sta invece orientando verso un’America che vuole camminare da sola e il resto del mondo che non può camminare senza l’America. Un dramma che, nei prossimi anni, si diffonderà in tutti i campi, a meno che l’Europa, traendo le conseguenze di questi eventi negativi, non trovi l’occasione per progredire finalmente verso la sua unità, trasformando la sfida in un’opportunità.

 

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Dati dell'intervento

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novembre 13, 2024
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