Le elezioni in Birmania sono l’inizio di un cammino democratico che interessa noi tutti
Il futuro ruolo di San Suu Kyi nella strategica Birmania
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 8 novembre 2015
Pochi in Italia sanno di preciso cosa rappresenta e dove è il Myanmar, anche se, forse, un riferimento più concreto può essere generato dal sapere che questo è l’attuale nome della Birmania.
Un paese di oltre cinquanta milioni di abitanti, piazzato tra Cina e India in una zona tra le più delicate nei rapporti politici internazionali, con un passato politico pieno di tragedie, guerre civili ed oppressioni.
Non sufficiente attenzione è quindi rivolta alle elezioni che si svolgeranno oggi, le prime tendenzialmente libere dopo cinquant’anni di duro regime militare.
Elezioni libere ma che possono a fatica essere definite democratiche perché il probabile vincitore non potrà in ogni modo assumere la responsabilità del governo.
Il meccanismo elettorale è infatti tale che gli elettori potranno esercitare la propria sovranità solo su tre quarti del futuro parlamento perché un quarto dei posti è riservato ai militari che hanno tuttora il pieno comando del paese. A questo si aggiunge il fatto che tutte le riforme costituzionali debbono essere approvate con una maggioranza pari ai tre quarti dei parlamentari più uno. In poche parole i militari avranno il diritto di veto su tutte le decisioni più importanti.
Le complicazioni tuttavia non finiscono qui dato che il probabile vincitore delle elezioni non potrà in ogni caso governare perché un bizzarro articolo della Costituzione vieta tale possibilità a chi ha parenti di cittadinanza straniera.
Comprendiamo a questo punto che il leader del principale partito di opposizione, contro cui è stato cucito quest’articolo, è una figura ben nota in Italia e nel mondo. Si tratta della signora Aung San Suu Kyi, che, figlia di un martire dell’indipendenza birmana, ha sposato un cittadino britannico e ha condotto per oltre vent’anni la battaglia per la democrazia pur avendo passato quindici di questi anni in prigione o agli arresti domiciliari.
Una figura emblematica, un vero e proprio simbolo di una incredibile capacità di resistenza e di leadership politica e morale, anche se recentemente accusata di avere esercitato in modo troppo autoritario la guida del suo partito e di non avere preparato un articolato programma di governo.
Solo una tempra come quella della Signora San Su Kyi può tuttavia essere in grado di fare cambiare strada alla Birmania. Una strada abbastanza complicata da comprendere perché la giunta militare, dopo avere oppresso il paese con un crudele pugno di ferro e con un isolamento totale dal resto del mondo, ha iniziato quattro anni fa una politica di apertura economica che ha ottenuto elevati livelli di sviluppo nelle aree urbane del paese, accompagnati tuttavia dal proseguimento dell’oppressione degli oppositori, da una crescente corruzione e dall’avere fatto di Myanmar il centro del traffico di droga e di ogni altro contrabbando tra i paesi che le stanno attorno.
La crescita dell’economia si è di fatto concentrata attorno al ristretto numero di coloro che controllano i centri di potere della capitale birmana e, soprattutto della città di Yangon (l’antica Rangoon) dove si sta accumulando tutta la nuova ricchezza del paese.
A questo si aggiungono crescenti tensioni di carattere religioso, tensioni che hanno prodotto veri e propri scontri armati.
È probabile che San Su Kyi vinca le elezioni ma non possiamo certo dimenticare che nel 1990 le aveva già vinte e che, da allora ha trascorso molto più tempo in prigione che in libertà. Oggi ė maggiormente protetta da un’opinione pubblica internazionale che ha finalmente portato il suo caso di fronte al mondo intero e tuttavia sappiamo anche quanto l’opinione pubblica sia più capace di provocare emozioni che non di essere in grado di agire all’interno di un paese nel quale i generali, aiutati da una costituzione costruita su misura per loro, non hanno nessuna intenzione di abbandonare il potere.
Oggi i rapporti di forza sembrano essere un poco migliori tanto che Aung San Su Kyi ha messo in qualche modo le mani avanti dichiarando che, se vincerà le elezioni, guiderà il governo e ne assumerà il potere reale nonostante le contorsioni costituzionali.
Il quadro descritto in precedenza ci mostra tuttavia quali difficoltà dovranno essere superate perché si possa concretizzare un reale cammino democratico in Myanmar.
Le elezioni birmane saranno quindi, in ogni caso, non il compimento ma solo l’inizio di un faticoso processo nel quale, se leggiamo nel passato, non mancheranno ulteriori tensioni e difficoltà.
L’Europa e l’Italia sono quindi chiamate ad esercitare, da domani in poi, un’attenta vigilanza su quello che avverrà in Myanmar perché in quel lontano Paese si sta combattendo una battaglia che interessa tutti noi e non solo i futuri equilibri politici dell’Asia.