Referendum: dopo lo show di oggi si facciano proposte concrete per l’interesse di tutti
Autonomia e poteri – Quelle verità non dette sugli eccessi delle Regioni
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 22 ottobre 2017
In Lombardia e Veneto dieci milioni di elettori vengono chiamati oggi alle urne per un referendum volto ad ottenere una maggiore autonomia. Nulla di sorprendente perché tutto questo, in diversi modi e con diverse intensità, avviene in molti paesi europei. Viene anzi da pensare che proprio l’Unione Europea renda meno rischiosa qualsiasi forma di maggiore autonomia, fornendo protezione e garanzia economica anche in un quadro di frammentazione istituzionale. Chiedere autonomia è divenuta perciò una scommessa senza rischi per i governanti e per i cittadini delle regioni più favorite. Non per nulla tali richieste provengono quasi sempre da quelle più ricche e si intensificano o si affievoliscono (come in Scozia) a seconda del buono o del cattivo andamento dell’economia regionale nei confronti del paese di appartenenza.
Questa quasi naturale tendenza si complica, fino a diventare drammatica, quando elementi economici si sommano a tensioni storiche, linguistiche o culturali, come nel caso della Catalogna.
Elementi che sono assenti, o perlomeno assai marginali, nei due referendum italiani perché, pur con caratteristiche non sempre identiche, siamo figli di una storia comune e ci siamo fortemente integrati, grazie anche ai processi di migrazione interna che hanno unificato in modo definitivo il nostro paese, se pure non ancora sotto l’aspetto economico.
Non vi è dubbio che il catalizzatore di questi referendum sia proprio l’aspetto economico, pur adombrato nei quesiti che richiedono “ ulteriori autonomie” rivendicando, assieme ad esse, le “relative risorse”.
Quest’aspetto non è però inserito in modo specifico nei quesiti, dato che la Costituzione proibisce di proporre qualsiasi forma di referendum in materia fiscale.
Il dibattito che si è snodato in queste campagne elettorali si è invece concentrato sui temi economici e fiscali, sostenendo che le imposte riscosse in Veneto o in Lombardia debbano sostanzialmente ritornare in Veneto o in Lombardia. È chiaro che un appello di questo tipo non può che essere gradito da un qualsiasi residente in una regione a livello di reddito più elevato della media.
È mancato invece un qualsiasi dibattito su quello che avrebbe dovuto essere l’obiettivo primario del referendum. Non ci si è cioè chiesto quali maggiori contenuti di autonomia renderebbero più efficace la competenza delle regioni. In questo caso il quesito avrebbe infatti dovuto scavare anche in direzione opposta, approfondendo cioè in quali settori l’autonomia regionale ha fatto emergere aspetti negativi per gli interessi delle regioni stesse.
Basta pensare al turismo dove, in un mondo globalizzato, l’esclusiva competenza regionale rende impossibile la strategia nazionale necessaria per attrarre in modo efficace i visitatori che ormai provengono da ogni parte del mondo. Ma anche in settori nei quali sono più chiare le convenienze generali del decentramento, come le politiche sociali e sanitarie, la necessità di mettere in atto più efficaci poteri di coordinamento a livello nazionale appare non eludibile. Il richiamo che, nella campagna referendaria, è stato continuamente rivolto allo statuto delle regioni speciali dovrebbe inoltre spingere ad una riflessione più generale su questo tema e sul rapporto fra costi e benefici di questi regimi speciali non solo nel sud ma anche nel nord del paese.
La maggiore autonomia non può in ogni caso derivare dal diverso livello di reddito e di ricchezza perché, in questo modo, si mettono a rischio i fondamenti stessi dell’unità nazionale, che non può esistere senza il necessario principio di solidarietà.
Non vi è dubbio che il rapporto fra governo centrale ed autorità locale rimane un problema permanente di ogni paese. L’appropriatezza della soluzione nasce dal modo con cui viene affrontato. Oggi due regioni vanno alle urne mentre una terza regione (l’Emilia-Romagna) ha deciso di affrontare lo stesso problema in modo meno conflittuale, e cioè con un dialogo diretto col governo. Eppure si tratta di una regione che, secondo tutti i pur contrastanti calcoli letti in questi giorni si colloca, come contributore netto, dietro alla Lombardia, ma davanti al Veneto.
Può essere che i leader politici delle due regioni che hanno indetto il referendum raggiungano con questa decisione il loro obiettivo di ottenere una maggiore visibilità politica ma è difficile pensare che possano raggiungere risultati diversi da chi ha deciso di procedere con metodi meno conflittuali.
Questo, comunque, lo si vedrà in futuro. Oggi sarà invece interessante vedere se sarà raggiunto il risultato della maggiore visibilità politica. Scontata la prevalenza del si tra i votanti, il successo sarà valutato sulla percentuale di coloro che si recheranno alle urne. Per la validità del referendum il Veneto si è posto il limite minimo di un affluenza del 50%, mentre la Lombardia è stata più prudente e non ha posto alcun limite. Approfittando di questo, il governatore Maroni ha messo le mani avanti, stabilendo che il 34% dei votanti sarebbe già una vittoria. Come si vede, anche nella misura del successo, ognuno va per conto suo.
Speriamo che, dopo lo show di oggi, si arrivi presto a fare proposte che si facciano invece carico dell’interesse di tutti.