Democrazia: niente di buono sul fronte occidentale

Niente di buono sul fronte occidentale

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 25 gennaio 2025

In più di un’occasione ho espresso le mie preoccupazioni sull’arretramento dei sistemi democratici nella politica mondiale. In una prima fase ho posto l’accento sull’accresciuta capacità di attrazione dei paesi autoritari, a partire da Cina e Russia. Un’attrazione che trovava facile consenso soprattutto in Africa dove la democrazia era più giovane e debole e dove i leader, pur democraticamente eletti, abbandonavano rapidamente le regole stabilite, accentrando nelle loro mani tutto il potere e impedendo o condizionando le future elezioni.

Mi sono poi preoccupato di una tendenza all’autoritarismo che progressivamente ha fatto breccia anche in Europa, pretendendo che le vittorie elettorali possano attribuire ai governi un potere totale ed esclusivo su tutta la società, a partire dal Parlamento per arrivare alla Magistratura e ai Media, fino al progressivo controllo dell’economia. Un cambiamento di cui l’Ungheria è l’emblema, ma che ha per lungo tempo caratterizzato la Polonia e trova un numero sempre più ampio di sostenitori in altri paesi, non esclusa l’Italia.

Non avrei però mai pensato che questa trasformazione divenisse dottrina e programma dominante negli Stati Uniti, paese in cui gli equilibri del potere (i così detti pesi e contrappesi) sono sempre stati il punto di riferimento non solo dell’America, ma dei sistemi democratici di tutto il mondo.

Questa rivoluzione è stata invece solennemente annunciata lunedì scorso quando Donald Trump, nel prendere possesso della più importante carica politica del mondo, ha accompagnato il suo giuramento con un discorso e un programma fondati non sugli equilibri delle istituzioni e sulla difesa dei diritti individuali, ma su una forza in grado di legittimare l’esercizio di un potere praticamente senza limiti non solo all’interno degli Stati Uniti, ma esteso verso tutti i paesi nei quali sono in gioco gli interessi americani. E’ pur vero che anche Trump dovrà fare i conti con gli equilibri e le garanzie sulle quali si fonda il sistema americano ma, prendendo alla lettera le sue parole, siamo di fronte a un cambio di regime e non a un semplice trasferimento di poteri tra un presidente democratico e un presidente repubblicano.

Non è quindi inappropriato parlare di un vero e proprio progetto rivoluzionario che intende travolgere ogni ostacolo non solo in conseguenza dell’investitura ricevuta, ma anche per l’immediato allineamento di tutti i grandi protagonisti dell’economia, compresi coloro che, fino al giorno delle elezioni, avevano duramente avversato la politica di Trump.

Siamo quindi di fronte a un un progetto che, appoggiandosi al più potente esercito e alla più forte economia del mondo, produce anche un cambiamento nei nostri profondi sentimenti, che avevano sempre trovato riferimento nella democrazia e nel sistema di valori americani.

Meno turbati da questo cambiamento sono certamente la Cina e la Russia. Da parte cinese l’ostilità americana era infatti scontata sia in caso di vittoria democratica che repubblicana.

Nella certezza che sarebbero arrivate nuove barriere doganali, la Cina aveva già cominciato a correre ai ripari, aumentando le esportazioni verso tutto il resto del mondo, riducendo il suo pur gigantesco export verso gli Stati Uniti al 2,8% del proprio PIL e moltiplicando gli investimenti nelle nuove tecnologie. Nei confronti della Russia le minacce di aumento delle sanzioni sembrano più l’inizio di un posizionamento in vista dei negoziati per la pace in Ucraina che non un pericolo reale.

Si può inoltre convenire che Russia e Cina vedono con favore ogni possibile rottura nel fronte occidentale.

Più complicata è la situazione europea in cui si distinguono le diverse posizioni fra chi si è limitato a fare gli auguri, chi ha dichiarato che bisogna rispondere occhio per occhio e chi è andato a Washington per dimostrare un’adesione acritica alla nuova politica americana.

La strategia europea, almeno nei confronti delle tariffe doganali, deve però essere preparata in modo unitario, anche perché la politica commerciale non è competenza nazionale ma comunitaria.

Il commercio fra Stati Uniti ed Europa è imponente, pari al 30% di tutto il commercio mondiale con un surplus europeo di 156 miliardi di dollari per le merci e un surplus americano di 104 miliardi per i servizi. Trump intende pareggiare con le dogane sulle nostre merci, aumentare le esportazioni di gas liquefatto e accrescere la capacità concorrenziale americana utilizzando il basso costo del carbone e degli idrocarburi su cui si fonda l’industria di oltreoceano.

A questo si aggiunge la rottura degli accordi in corso che prevedevano la possibilità di tassare, almeno con un’aliquota minima, gli enormi profitti che le grandi imprese a rete (a partire da Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft ) stanno facendo in Europa.

A cui si debbono aggiungere gli acquisti addizionali di armamenti americani da parte dei singoli paesi prima che l’Europa riesca a mettere in atto una propria politica comune nel settore.

Un così radicale sconvolgimento dei rapporti economici transatlantici non potrebbe che spingere l’Unione Europea a cercare altrove i propri mercati, rendendo in tal modo concreto l’obiettivo russo e cinese di incrinare la solidarietà occidentale.

Siamo quindi di fronte a problemi economici gravidi di conseguenze. Tuttavia ben più gravi sono i provvedimenti di rottura della solidarietà internazionale già annunciati e decisi, come la fine di ogni collaborazione nella politica ambientale, l’uscita degli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, le minacce all’integrità territoriale di altri paesi e la creazione di un sistema di criptovalute al di fuori di ogni controllo ed ogni regola.

Di fronte a questi arretramenti nel passato, spacciato come futuro, ciò che più sorprende e preoccupa è la reazione che oggi prevale nel mondo: non una rivolta morale e nemmeno risposte politiche adeguate, ma solo rassegnazione e stanchezza.

 

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