L’Italia non riparte se non si rafforzano industria e servizi
Italia in stallo, troppo deboli consumi e produttività
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 25 settembre 2016
Nei tempi passati conoscevamo troppo poco delle nostre economie. Oggi, forse, abbiamo l’illusione di saperne anche troppo perché siamo quotidianamente invasi da previsioni e dati. Il problema è metterli in ordine e capire che cosa possono insegnarci sul futuro.
Per chiarirci un po’ le idee partiamo dal fatto che, mentre la crescita mondiale ha quasi raggiunto i ritmi precedenti la grande crisi, i paesi sviluppati camminano adagio, mentre i paesi emergenti vanno meglio, ma con un peso e una velocità non sufficienti a trascinare tutta l’economia mondiale.
In secondo luogo, tra i paesi ad elevato reddito, permane una notevole differenza fra il relativo vigore dell’economia americana e la permanente stanchezza di quella europea e giapponese. Siamo inoltre di fronte a un sostanziale declino della crescita del commercio internazionale, che non è più una forza trainante e trova ogni giorno maggiori difficoltà. Questa nuova tendenza si manifesta non solo nelle ormai insormontabili difficoltà che si frappongono all’approvazione dei grandi trattati commerciali, ma anche nelle politiche concrete dei vari governi. Come rileva l’ultimo rapporto di Prometeia, le misure restrittive entrate in vigore nell’ultimo anno sono tre volte superiori rispetto alle misure che tendono a facilitare il commercio.
Un’altra costante è che, tra i paesi ad alto livello di reddito, l’economia americana, pur avendo subito un temporaneo rallentamento, continua ad avere prospettive più robuste di quella europea.
Infine, in questo contesto di debolezza europea, l’Italia marcia a velocità ridotta. Nella sterile battaglia delle cifre si revisionano verso l’alto i consuntivi del PIL 2014 e verso il basso quelli del 2015, ma i dati del secondo trimestre dell’anno in corso ci dicono che siamo di fronte ad un ulteriore rallentamento europeo e che l’Italia si trova ancora nel plotone di coda.
Tenendo conto delle evoluzioni più recenti sembra ormai certo che, nel consuntivo dell’anno in corso, non si raggiungerà nemmeno l’uno per cento di crescita.
Una prima spiegazione va ricercata nella minore spinta dell’export. Abbiamo perso molto terreno rispetto ai nostri maggiori concorrenti nei settori tradizionali ma abbiamo diminuito la nostra quota anche nel nostro settore più forte, quello meccanico.
Non è tuttavia il commercio estero il nostro punto più debole: la mancata crescita trova soprattutto la sua spiegazione nella debolezza dei consumi e degli investimenti interni. I consumi, fatta eccezione per una piccola fascia alta, sono statici o in diminuzione. Gli investimenti, che prima della crisi oscillavano intorno al 22% del PIL, sono ora al di sotto del 17%.
I consumi soffrono non solo per il basso potere d’acquisto delle famiglie dovuto alla stagnazione dei salari ma anche per l’incertezza sul futuro.
Gli investimenti languono per effetto del minore dinamismo del ciclo dell’automobile, per la debolezza delle piccole imprese di fronte a quelle di maggiore dimensione e, soprattutto, perché nel mondo i nuovi investimenti si dirigono sempre più verso i servizi, dove l’Italia è particolarmente debole.
In questo quadro non proprio felice un elemento confortante è l’andamento dell’occupazione. Oggi essa cresce più del PIL, mentre in passato era l’opposto. Questa anomalia è dovuta sia al fatto che l’espulsione di mano d’opera avvenuta durante la crisi è stata talmente forte che anche la modestissima crescita di oggi richiede un aumento di occupazione, sia alle scelte della politica governativa che ha introdotto la decontribuzione e il Jobs Act.
Pur essendo misure temporanee e costose esse hanno avuto un effetto fino ad ora positivo sul mercato del lavoro. Tuttavia, come ben sappiamo, quando l’occupazione aumenta più del PIL, siamo di fronte ad una diminuzione della produttività.
Ed è altrettanto chiaro che, in un’economia concorrenziale, non vi può essere né una crescita né un’occupazione stabile e duratura senza l’aumento della produttività.
La nostra strategia deve perciò orientarsi in questa direzione.
Il che comporta prima di tutto una spietata politica dedicata all’aumento delle dimensioni delle imprese: nelle aziende superiori ai 250 addetti la nostra produttività si batte vittoriosamente con quella tedesca mentre, nelle dimensioni inferiori, siamo surclassati.
Oggi il piccolo non riesce più ad essere bello. In secondo luogo dobbiamo investire di più nei servizi, da quelli più raffinati a quelli più elementari, modernizzando anche un turismo che ha potuto offrire quest’anno risultati lusinghieri solo per la tragica situazione dei nostri concorrenti del Sud del Mediterraneo, ma che aumenta sempre la sua distanza nei confronti dei più forti concorrenti europei.
Un’operazione di questo tipo non è né facile né rapida perché, per avere successo, deve essere sostenuta da un aumento dei consumi, non compatibile con redditi da lavoro sostanzialmente statici e con la domanda pubblica schiacciata dai vincoli di bilancio.
Per questi motivi il nostro tasso di crescita si colloca ancora su livelli inferiori rispetto alle previsioni del governo.
La correzione di questa nefasta crisi della produttività può essere tuttavia iniziata attraverso una rapida e selettiva applicazione del progetto Industria 4.0, purché esso non si traduca in un generico incentivo agli investimenti ma agisca nel rafforzare i punti deboli del nostro sistema produttivo, sia nel settore industriale che nei servizi.