Europa: dobbiamo recuperarne la visione e il progetto

Romano Prodi: “Cara Europa, dobbiamo recuperare il progetto e la visione che avevamo”
A sei mesi dal voto europeo, il professor Romano Prodi guarda al giorno dopo. E sogna 500mila giovani che uniscano il Mediterraneo

Intervista di Marianna Aprile a Romano Prodi su Oggi del 27 gennaio 2024

Mentre parliamo, l’Inno alla gioia suona tre volte. È la suoneria del cellulare di Romano Prodi («La musica migliore mai scritta nella storia dell’umanità, non ti stanchi mai di ascoltarla»), ma anche l’inno che l’Europa si è data fin dal 1972, prima ancora che l’Unione nascesse.

La colonna sonora discreta e precisa di questa conversazione all’inizio dell’anno delle elezioni europee e nel giorno del secondo anniversario della morte del presidente del Parlamento europeo David Sassoli, cui il professore era molto legato: «Un vero europeista, che intendeva l’Europa come unione tra popoli, non solo tra governi. È il messaggio più profondo che ci ha lasciato. In un tempo in cui la democrazia ha tempi corti, Sassoli sapeva immaginare disegni di lungo periodo. Quando gli parlai della costruzione delle Università del Mediterraneo sposò immediatamente il progetto».

Di che cosa si tratta?

«Trenta università, sulle due sponde del Mediterraneo, nord e sud, paritarie: da Napoli a Tunisi, da Barcellona a Rabat. Stesso numero di studenti e docenti, un programma che preveda due anni di studi a sud e due a nord. Se prendiamo 500 mila ragazzi e li facciamo studiare insieme così, lavoreranno, faranno ricerca, si sposeranno, si impasticceranno tra loro e l’Europa riconquisterebbe il Mediterraneo senza far nulla. Invece lo stiamo lasciando a russi e turchi».

Un “Piano Atenei”, invece del Piano Mattei. A proposito, lei ha capito in che cosa consista il Piano Mattei del governo Meloni per l’Africa?

«No. Ma che un governo di destra abbia scelto di indicarlo col nome di un imprenditore di sinistra è abbastanza interessante».

Professore, come sta l’Europa?

«Non bene. Due anni fa, nel dramma della pandemia, avevamo colto un messaggio: solo l’Europa può salvarci. Poi siamo ricaduti nel “vizio” pre-Covid: il primato degli obiettivi nazionali su quelli europei. Ma la debolezza delle democrazie è un dramma mondiale. Nel 2024, 2 miliardi di adulti, metà della popolazione mondiale, andranno a votare, in Stati Uniti, Europa, India, in Russia, dove peraltro il risultato è scontato. Però in India ci sono tensioni fortissime, negli Stati Uniti uno dei due contendenti, peraltro avanti nei sondaggi, lancia vere e proprie accuse alla democrazia. La tendenza è di apprezzarla quando si vuole salire al potere e diventarle insofferenti una volta al governo. E così la democrazia è apparentemente fiorente ma in realtà affaticata. E faticosa».

Che cosa la logora?

«Lunghissime campagne elettorali e il trionfo dell’analisi demoscopica fanno sì che, dagli Stati Uniti all’Italia, si adatti la politica al consenso del momento e la politica estera all’interesse di quella nazionale. Nessuno fa più progetti a lungo termine. E poi c’è l’astensionismo, figlio della mancanza di aspettative soprattutto tra i giovani, che colgono questa assenza di un progetto nella politica».

Il 2024 è iniziato con l’addio a un padre dell’Europa, Jacques Delors. La sua lezione più preziosa?

«Un rarissimo mix tra concretezza e idealismo che gli ha consentito di costruire il mercato comune riuscendo contestualmente a far intravedere il futuro dell’Europa. Oggi di idealisti concreti come lui non ne vedo. Con la frammentazione della democrazia, le coalizioni sono diventate necessarie ai governi, ma allo stesso tempo li rendono inefficaci. In Italia accade da molti anni. È uno strano Paese il nostro, forse i secoli di servitù ci hanno resi politicamente più “creativi”. Abbiamo sempre anticipato i cambiamenti che hanno turbato la vita democratica: Mussolini è stato il maestro di Hitler, Berlusconi di Trump, i Cinquestelle maestri dei populismi».

Che succede se Trump vince le elezioni americane del prossimo novembre?

«Che forse l’Europa si sveglia. La posizione di Trump sull’Europa è nota e l’America diventerebbe nostra nemica, o almeno non amica. La domanda è: in quel caso sapremmo reagire? Un’Europa che si sentisse sola avrebbe una maggiore spinta verso il rafforzamento delle proprie istituzioni, costruzione di una difesa e di una politica estera comuni? Il nostro futuro sarà indotto più dalla necessità di far fronte allo strapotere americano e cinese che dalla visione».

E l’Italia?

«Dicendo un po’ sì e un po’ no all’Europa perde il suo ruolo politico. Il Consiglio europeo è un club la cui appartenenza non può essere parziale né intermittente e in cui si deve essere affidabili. Agendo come col MES, si perde peso lì dove si decide».

Crede che a qualcuno questo isolamento europeo possa non dispiacere?

«No. C’è una tale paura della nuova Guerra Fredda in cui siamo che l’Europa resterà comunque assieme. La sfida è che riesca a prendere decisioni. È un cammino faticoso, ma dopo Brexit a nessuno verrà più voglia di abbandonare l’Europa. Neanche a Orbàn, che pure urla molto. Dobbiamo però recuperare la visione che abbiamo perso. Vede, ai tempi dell’Euro facevamo molti vertici bilaterali con Cina, Stati Uniti, Russia: si ragionava di tutto, dal burro agli ingranaggi, ai rifornimenti idrici, alle migrazioni. Ma allora il presidente cinese Hu Jintao era interessato quasi solo all’Euro e quando capì che poteva prenderlo nelle sue riserve monetarie disse: “Avremo nel portafoglio tanti Euro quanti dollari, perché se accanto al dollaro c’è l’Euro c’è posto anche per la nostra moneta”. Aveva colto il progetto di un’Europa paritaria e mediatrice tra Cina e Stati Uniti. Oggi quel sogno è andato a farsi friggere e abbiamo perso un ruolo che anche gli altri pensavano avremmo potuto ricoprire».

Come si aspetta che vadano le Europee?

«Stiamo assistendo al grave errore di viverle come la somma di elezioni nazionali, ma non credo assisteremo a grandi scossoni. Poi però, siccome la Storia abbonda di sfide, arriverà una crisi a mettere alla prova l’Europa. Il tema è la lentezza di questo cammino: la vita umana è limitata e io avrei voluto vedere nella mia vita un completamento del progetto europeo».

Cosa potrebbe accelerare questo cammino?

«La guerra in Ucraina ha determinato, in un solo giorno, una rivoluzione nella politica tedesca, che dopo oltre 70 anni ha ricominciato a investire, molto, nella difesa. Nel giro di qualche anno, questo cambierà la natura dell’Europa, che si è sempre retta su un motore a due pistoni, tedesco e francese, con l’Italia decisiva per la formazione di una volontà comune. Se ora la Francia starà ferma, l’Europa sarà a guida tedesca. Per evitarlo, la Francia dovrebbe mettere a disposizione della crescita europea due punti di forza che solo lei possiede: il diritto di veto nel consiglio di Sicurezza dell’Onu e l’arma nucleare. Non lo farà, perché le manca il senso del futuro, come quando bocciò con un referendum la Costituzione europea per pura nostalgia del passato, dell’Impero, la stessa che ha portato alla Brexit: gli ex imperi guidano guardando lo specchietto retrovisore. Lo facciamo anche noi, e senza neanche un impero alle spalle».

C’è nostalgia pure degli aspetti più deteriori del passato, come dimostra il raduno neofascista di Acca Larentia. La preoccupano questi fenomeni?

«Ci sono sempre stati ma oggi fanno la voce più forte. Le foto e i video di Acca Larentia mi hanno spaventato: sono tanti, organizzati, addestrati, strutturati come un esercito. All’estero quelle immagini hanno fatto un’impressione enorme e questo ci danneggia molto: era una manifestazione apertamente, coralmente, muscolarmente fascista».

Perché Giorgia Meloni, a oggi, non ha ritenuto di condannare quelle immagini?

«Perché quelli votano per lei e non sono pochi. Resta in silenzio per non andare contro i suoi. Ma il funambolismo tra passato e presente potrà reggere finché la Storia non la porrà di fronte a un dilemma importante: arrivano sempre eventi che non possono essere ignorati e lì Meloni dovrà scegliere se perdere quei voti. Ma non so dirle se lo farà, non vuole nemici a destra».

Andiamo a sinistra. Che cosa manca oggi perché una coalizione di centro-sinistra stia insieme non per necessità ma per un vero progetto alternativo?

«Una ricetta per affrontare insieme le paure per l’economia e l’immigrazione. Manca una leadership riconosciuta che unisca, come in Delors, concretezza e ideologia. È difficile avere un obiettivo non indotto dalla necessità se a dominare sono gli equilibri di coalizione e le scadenze di breve periodo».

Europa e sinistra vanno lente, lei corre ancora?

«Un giorno sì e uno no. Fino all’anno scorso facevo 9 km, ora mi fermo a 8,7-8,8. Tranne negli anni “della carriera”, quelli degli studi a Milano e i primi della carriera universitaria, ho sempre corso. Ho fatto jogging dappertutto: attorno al palazzo imperiale di Tokyo, in Cina, in tutte le città americane ed europee in cui sono stato. Anche ora ho le scarpette in valigia, per domattina, sul Lungotevere: è bellissimo, e all’ora in cui vado io non c’è mai nessuno».

 

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
gennaio 29, 2024
Interviste