Fallimento Brexit: gli inglesi e il lento percorso per tornare in Europa
Fallimento Brexit – Gli inglesi e quel lento percorso verso la Ue
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 12 agosto 2023
Sono passati più di sette anni da quando, seppure con una risicata maggioranza, la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Unione Europea. Abbiamo quindi tutti gli elementi per un meditato giudizio sugli effetti di lungo periodo di questa così importante decisione. La prima considerazione è che nessuno dei sogni di coloro che erano in favore della Brexit si è avverato. Non certo la crescita che era stata una motivazione fondamentale dei sostenitori del divorzio britannico.
Dopo quella fatidica decisione la crescita della Gran Bretagna è infatti stata deludente e, quest’anno, le cose vanno addirittura peggio. Il PIL non avrà infatti un aumento superiore allo 0,2%. Si tratta quindi di una sostanziale stagnazione in tutti i settori dell’economia, dagli investimenti ai consumi, dall’industria al terziario, fino al commercio estero.
In secondo luogo non ha avuto concreto esito la tanto ventilata ipotesi che la Gran Bretagna, staccandosi dall’Unione Europea, avrebbe avuto un trattamento di favore dagli Stati Uniti. I tentativi in proposito non hanno portato ad alcun effetto positivo, semplicemente perché questo non è l’interesse americano.
Infine la separazione dall’Europa, con cui la Gran Bretagna aveva rapporti economici strettissimi, ha causato un imprevisto aumento dell’inflazione, che ancora supera l’8%. Un’inflazione che ha portato ad una crescita fuori controllo dei prezzi dei beni alimentari, allargando a dismisura la fascia di povertà, fino ad arrivare a una dimensione senza precedenti nel corso dell’ultima generazione.
Naturalmente, come capita in tutti i divorzi, si sono susseguiti infiniti negoziati volti a regolare le complicate conseguenze della separazione: dai crescenti ostacoli all’immigrazione, alla ricostruzione dei controlli doganali, alle complicazioni amministrative, fino alla moltiplicazione del livello delle tasse universitarie.
I vari governi che si sono succeduti, con una durata così breve da fare invidia all’Italia, hanno gareggiato nell’approfondire le tensioni con i negoziatori europei, fondandosi sulla dottrina che la Gran Bretagna avrebbe avuto un grande futuro solo se si fosse presentata come il pilastro fondamentale del libero commercio mondiale.
Ipotesi illusoria anche perché, nel frattempo, la globalizzazione perdeva almeno in parte il suo fascino e si affermava sempre di più un quadro economico nel quale solo i grandi blocchi possono dettare le leggi del commercio internazionale.
Tutti questi eventi hanno tuttavia finito col riportare nella politica britannica almeno un poco di quella saggezza empirica che è sempre stata una caratteristica speciale della società d’oltremanica.
Non che il nuovo Primo Ministro Suniak si sia convertito all’europeismo, ma ha cominciato a capire che la politica della separazione a ogni costo non paga e che il compromesso è preferibile allo scontro continuo. Ha iniziato in Febbraio con il permettere la supervisione della Corte di Giustizia Europea nelle controversie di commercio riguardanti l’Irlanda del Nord.
Due mesi dopo si è messo in rotta di collisione con gli estremisti euroscettici (tra i quali il suo predecessore Boris Johnson) non tenendo fede all’impegno di abbandonare entro l’anno tutte le leggi europee ancora in vigore. Infine, nei giorni corsi, ha convenuto che i certificati europei di sicurezza dei prodotti -marchiati CE- valgano anche per il Regno Unito.
Non si tratta di grandi rivoluzioni, anche perché tutte queste concessioni vengono motivate non da un cambiamento di linea politica, ma dalla necessità di combattere l’inflazione. Tuttavia il fatto che, dopo le feroci battaglie ideologiche degli scorsi anni, la lotta all’inflazione prevalga sull’ideologia, non mi sembra un cambiamento di poco conto.
Nessuna rivoluzione è quindi in corso ma, nel frattempo, stanno uscendo indagini demoscopiche che, pur con i loro limiti, dimostrano una crescente insoddisfazione del popolo britannico nei confronti della Brexit.
Il problema non è ancora maturo perché diventi un elemento di scontro nella prossima campagna elettorale, ma le evoluzioni descritte obbligano a riflettere sulle possibili conseguenze. In primo luogo gli eventi e le evoluzioni del post-Brexit portano sostanzialmente ad escludere che qualsiasi altro paese intenda ragionevolmente uscire dall’Unione Europea.
Le così pesanti difficoltà della Gran Bretagna, paese non solo grande e potente, ma con una sua profonda diversità storica, sono un elemento di scoraggiamento per chiunque abbia intenzione di procedere nella stessa direzione.
Nemmeno gli euroscettici sono disposti a trasformarsi in eurosuicidi. A meno che non sia la stessa Unione Europea a coltivare tentazioni di autodistruzione. Il che, ameno nelle attuali prospettive, non mi sembra un’evoluzione possibile.
Penso invece che, in un futuro non lontanissimo, sarà la Gran Bretagna a ripensare a come e con chi costruire il proprio futuro. Credo infatti che, fra non molti anni, si riproporrà il problema di un suo sostanziale e non temporaneo riavvicinamento all’Unione Europea.
Non sarà un passaggio semplice e vi saranno negoziati lunghi e complessi, che si concluderanno in modo difficile da prevedere. E’ tuttavia evidente che il cammino della storia non può essere interrotto nemmeno dalla Gran Bretagna e, ancora meno, dai paesi che fanno oggi parte dell’Unione Europea.