Giovanni e Francesco: il rischio della speranza e il coraggio della libertà
Il Concilio Vaticano II – La rivoluzione della speranza
Articolo di Romano Prodi nello speciale “Il Giorno dei Santi“ su Il Messaggero del 27 aprile 2014
Sono passati tanti anni ma il ricordo del pontificato di Giovanni XXIII non si è ancora cancellato dalla memoria.
Forse perché il suo pontificato ha accompagnato il periodo più intenso della mia formazione e certamente perché le novità che aveva suscitato, oltre a corrispondere alle attese e alle speranze della mia generazione, costituivano un fenomeno del tutto inedito per la Chiesa cattolica. Parole come “aggiornamento”, “speranza”, “fiducia negli uomini di buona volontà” , risuonavano come per la prima volta.
Cercherò comunque di mettere in ordine quei ricordi e di vedere quante di quelle speranze e novità hanno attraversato il corso della storia e quante si sono invece perdute.
Quando venne eletto Papa Roncalli nell’ottobre del 1958 ero al secondo anno di Giurisprudenza nel Collegio Augustinianum, presso l’Università Cattolica a Milano. Un collegio che raccoglieva un numero assai selezionato di studenti da tutte le parti d’Italia. Nell’ambiente il Cardinale Roncalli non era ignoto perché, da patriarca di Venezia, aveva dimostrato segni di dialogo e di aperture politiche che, per i tempi di allora, apparivano come segnali inediti rispetto alle posizioni tradizionali della gerarchia italiana.
L’attesa si trasformò in entusiasmo fino dai suoi primi discorsi ma si consolidò soprattutto quando, dopo soli tre mesi di pontificato, fu annunciata la convocazione del Concilio Vaticano II.
Ne emerse subito la percezione che sarebbe iniziato un processo di cambiamento profondo, che toccava tutti i rapporti fra la Chiesa ed il mondo contemporaneo.
Non essendo teologi non eravamo evidentemente in grado di approfondire le finezze dell’intenso dibattito dottrinale che il Concilio avrebbe aperto ma ci rendevamo conto che questo sarebbe stato il punto di partenza di una profonda revisione dei giudizi e delle prese di posizione della Chiesa nei confronti dell’intera comunità mondiale, anche se, evidentemente, eravamo soprattutto attenti a quanto sarebbe potuto avvenire in Italia.
La convocazione del Concilio e i dibattiti che lo precedettero ci fecero capire che le cose non stavano esattamente così perché i protagonisti e gli innovatori di questo dibattito erano per molta parte vescovi o teologi stranieri fino allora rimasti quasi del tutto sconosciuti alla cultura italiana.
Cominciò allora un approfondimento dei problemi religiosi che non si è più ripetuto nel cinquantennio che ha seguito la fine del concilio.
Al centro di questi dibattiti era naturalmente il Pontefice stesso, perché era stata la sua improvvisa personale decisione di obbligare tutti a riflettere sulla necessità di affrontare con uno sguardo nuovo i problemi del mondo contemporaneo. Le resistenze e le opposizioni a Papa Roncalli furono ovviamente molto forti e continue, anche se esse si scontravano con una determinazione, per molti sorprendente, da parte di un uomo di età molto avanzata e che, per la maggior parte della propria vita, non aveva combattuto battaglie frontali ma aveva piuttosto usato l’arma pastorale della carità, o quella diplomatica del convincimento.
La sua determinazione potè risultare vincente non solo per l’opera di un folto nucleo di genuini innovatori nel mondo dei teologi e dei vescovi ma anche per l’incredibile livello di popolarità di cui Papa Giovanni XXIII godeva in conseguenza del suo porgersi in modo semplice, diretto a caloroso e, soprattutto, per la sua capacità di parlare con semplicità e coraggio dei grandi problemi dell’umanità.
L’esempio più significativo e importante di questa capacità fu certamente l’enciclica “Pacem in Terris“. Essa è stata scritta nel 1963, in un momento veramente drammatico della storia dell’umanità. Si era da poco conclusa la vicenda della crisi dei missili a Cuba, l’Europa era stata divisa dal muro di Berlino e si stava profilando il concreto pericolo di una guerra nucleare fra Stati Uniti ed Unione Sovietica, un pericolo che non si è mai ripetuto in seguito con la stessa intensità.
In questa contingenza storica l’enciclica non solo reclama le ragioni della pace di fronte alle grandi potenze ma parla in modo fermo ed esplicito di globalizzazione, di mondo unito e della necessità assoluta che le grandi innovazioni tecnologiche del mondo richiedano un unico punto di riferimento.
Il documento pontificio non si ferma qui ma ribadisce con durezza che non vi è un possibile ordine al mondo se non vi è giustizia sociale, se non vi è equilibrio nella disponibilità economica, nel potere politico e nell’espressione dei diritti individuali e collettivi dai parte dei cittadini.
Una semplice analisi storica ci fa vedere come ben poche di quelle grandi speranze sollevate da Papa Giovanni XXIII si siano successivamente concretizzate.
Certamente, anche se le tensioni nel campo della guerra nucleare di tempo in tempo ricompaiono, non viviamo più nell’incubo quotidiano della bomba atomica.
Tuttavia, nonostante i progressi economici e tecnologici dell’ultimo cinquantennio, la povertà attanaglia ancora miliardi di persone e le differenze di reddito sono prima leggermente diminuite e poi grandemente aumentate, mentre il cammino dei diritti umani procede con lentezza esasperante o viene nuovamente negato in molte parti del mondo.
Ed è forse ancora più grave dovere sottolineare che siamo come rassegnati a vivere in un mondo che prolunga ingiustizie e disparità. Anche le democrazie sembrano avere rinunciato al loro compito storico di vincere la battaglia dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità.
Una speranza è tuttavia rinata quando un nuovo pontefice, venuto dalla fine del mondo, ha ripreso i messaggi di cinquant’anni fa e ha scaldato nuovamente gli animi di miliardi di persone. Anche in questo caso si tratta di un Papa che parla un linguaggio semplice, diretto, autentico. Che sa rivolgersi a tutti, richiamando i principi fondamentali e le regole etiche della convivenza civile come unico strumento del progresso dell’umanità.
Il legame fra Giovanni e Francesco appare quindi come una vera e propria linea di continuità da un punto di vista dello stile cristiano: entrambi hanno scelto il rischio della speranza e il coraggio della libertà.