Il declino tedesco, una sfida per l’Italia
Il declino tedesco, una sfida per l’Italia
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 30 novembre 2024
Le vicende tedesche dimostrano che, anche in Germania, le cose possono andare male. Dopo i lunghi anni di “facile ottimismo” la Germania è entrata in un periodo di cupo pessimismo, frutto di un inatteso intreccio tra difficoltà politiche e difficoltà economiche.
La crisi politica è stata resa evidente dalla fine di un governo nel quale il perenne disaccordo fra i partiti ha portato all’anticipata fine della legislatura e a nuove elezioni, che si svolgeranno il prossimo 23 febbraio. La nuova coalizione, che molto probabilmente passerà da una guida socialista a una conduzione CDU/CSU, cercherà di fare uscire la Germania da una stagnazione economica iniziata nel 2021 e trasformatasi in recessione negli ultimi mesi.
L’elenco delle cause di questa crisi è lungo e condiviso: dalle tensioni con la Russia e le crescenti difficoltà nei rapporti economici con la Cina a un’eccessiva burocratizzazione dell’apparato produttivo, dall’alto costo della mano d’opera alla crescente scarsità di specialisti. A questi guai si è aggiunta un’ormai endemica insufficienza degli investimenti non solo nel settore produttivo, ma anche nella spesa sociale (a partire dall’istruzione) e nelle infrastrutture.
Un’insufficienza dovuta anche al fatto che l’aumento della spesa pubblica, pur non essendo certo un problema per il bilancio tedesco, è impedito dall’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio, vero e proprio dogma della politica germanica.
Obbligo finalmente messo in discussione persino dal settore conservatore che ne è stato finora paladino, ma che potrà essere cancellato solo dal voto dei due terzi del Bundestag, maggioranza non certo sicura dopo le elezioni di febbraio.
Omettendo le riserve che debbono essere sempre, e non solo in Germania, portate avanti quando si scrivono in Costituzione obiettivi economici condizionati da eventi futuri e quindi incerti, conviene riflettere sul fatto che l’aspetto ritenuto più preoccupante è la grave e perdurante caduta dell’industria, settore che ha sempre costituito il pilastro fondamentale dell’economia tedesca. Si tratta di una una crisi che va ben oltre i pur gravissimi danni che colpiscono un paese esportatore quando gli eventi internazionali, come sta oggi avvenendo, spingono verso la chiusura dei mercati e il protezionismo.
La produzione dell’industria manifatturiera tedesca è, nell’anno in corso, inferiore di oltre il 15% rispetto al 2017 e il numero di vetture prodotte è passato da 5,7 milioni del 2016 a 4,1 milioni, prospettando per la prima volta la chiusura di impianti e mettendo in difficoltà non solo le industrie di componenti, ma anche le imprese chimiche e siderurgiche.
Il cattivo andamento dell’industria non deriva però solo dalle difficoltà dell’export e dal calo della domanda interna provocato dall’aumento del risparmio delle famiglie, comportamento abituale quando i consumatori si trovano di fronte a un futuro incerto. Le analisi più accurate dimostrano che il problema più grave deriva dal fatto che la pur straordinaria industria tedesca è scarsamente presente nei nuovi settori produttivi che costituiscono l’asse portante della crescita cinese e americana.
La Germania continua nel suo poderoso cammino dei progressi produttivi incrementali che, pur essendo estremamente raffinati, percorrono cammini tradizionali, con una trascurabile presenza nelle tecnologie che stanno già trasformando il mondo. Il timore che questa debolezza possa dare inizio a un processo di deindustrializzazione sta sempre più preoccupando i responsabili della politica e sempre più occupando il dibattito sul futuro del paese.
Se dalla Germania passiamo all’Italia ci troviamo di fronte a problemi del tutto analoghi, anche se in qualche modo nascosti dal positivo andamento del settore terziario, spinto soprattutto dal buon andamento del turismo.
La produzione industriale sta attraversando anche in Italia una congiuntura pesantemente negativa che non accenna ancora a migliorare e che, nei primi nove mesi dell’anno in corso, vede addirittura una caduta del 3,4%, e del 4,1% a settembre, ultimo mese di cui abbiamo i dati definitivi.
Questa caduta riguarda tutti i più importanti settori manifatturieri, fatta eccezione per una crescita dell’1,5% dell’industria alimentare e dello 0,7% nella chimica. Sono dati allarmanti che tuttavia, a differenza della Germania, non costituiscono alcun allarme in Italia, nonostante la nostra industria manifatturiera sia la seconda in Europa e costituisca il pilastro fondamentale dell’economia italiana.
Si alzano voci allarmate e tensioni sociali quando si prospettano crisi aziendali, ma non si è aperto alcun dibattito e non si è prospettata alcuna strategia per affrontare i cambiamenti di oggi e le prospettive di domani. La preoccupazione degli imprenditori e i comportamenti dei responsabili politici vivono in una specie di anestesia, nella speranza che si tratti di una tempesta passeggera.
Siamo invece entrati in una situazione di trasformazione totale, con una rivoluzione già operante nel campo delle tecnologie (non solo per l’irruzione dell’intelligenza artificiale) e con un vero e proprio sovvertimento dei mercati.
Nonostante questo non vi sono progetti nel governo, non si è aperto alcun dibattito intellettuale tra gli esperti e non emerge nessun adeguato segno di allarme e nessuna proposta innovativa, nemmeno da parte di Confindustria.
Quest’anestesia non può durare a lungo perché nel frattempo gli altri sono svegli e corrono: chi ha la responsabilità di guidare il nostro sistema industriale è ora che si prenda cura del paziente, senza aspettarne la morte.