Iran: trattato a rischio se l’Europa non parlerà con una sola voce
Colloqui tra leader – Un dialogo Europa-Usa per limitare il rischio Iran
Articolo di Romano Prodi su Il Messagero del 29 aprile 2018
Nell’Europa non ancora unita abbiamo costantemente assistito alla nobile gara per diventare l’interlocutore privilegiato, e quindi il figlio prediletto, degli Stati Uniti d’America. Competizione vinta, per molti anni e senza particolari difficoltà, dalla Gran Bretagna grazie all’affinità di storia e di lingua. Dopo l’unificazione tedesca la Germania, con il suo crescente peso economico, ha ottenuto il primo posto: nei primi tempi del suo mandato Obama telefonava ancora al Primo Ministro britannico ma negli ultimi anni di governo l’interlocutore principe è stata la cancelliera tedesca.
Questa sfida fra i leader europei ha naturalmente il suo prezzo: solo per fare un esempio, il governo tedesco, desideroso di ottenere questa primazia, ha combattuto in prima linea per imporre severe sanzioni contro Mosca. Sanzioni costose per la Germania e per l’Europa e che, almeno fino ad oggi, non hanno raggiunto alcuno dei risultati attesi.
Le cose sono cambiate ancora con l’arrivo di Trump, ferocemente schierato contro l’enorme surplus della bilancia commerciale tedesca e altrettanto critico per lo scarso contributo della Germania alle spese militari della NATO.
L’accoglienza trionfale tributata al presidente Macron ha solennemente sancito il cambiamento di fronte. Adesso è la Francia l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti. Macron è stato il primo leader mondiale ad essere ricevuto con una solenne visita di Stato: i tre giorni a lui dedicati, rispetto alle tre ore concesse alla Cancelliera tedesca due giorni dopo, segnano in modo quasi plateale il nuovo assetto.
Il colloquio franco-americano si è concentrato soprattutto sui grandi temi della politica estera e, in particolare, sull’Iran. Allo scopo di evitare il ritiro degli Stati Uniti dal trattato concluso con Teheran, Macron ha proposto di estenderne la durata oltre il 2025, di ottenere un maggior controllo dei missili balistici iraniani e, in generale, di contenere l’influenza dell’Iran in Medio Oriente. Obiettivi per molti aspetti di buon senso: il trattato con l’Iran non è tuttavia stato firmato solo dagli Stati Uniti e Francia ma anche da Russia, Cina, Germania e Gran Bretagna. Non credo proprio che tutti siano disposti ad accettare questi cambiamenti che, in ogni caso, Teheran ha già platealmente respinto.
Se quindi il 12 maggio Trump si ritirerà dal trattato non avremo semplicemente alcun trattato e le tensioni con l’Iran, con i relativi rischi di guerra, si moltiplicheranno. Ci resta solo da sperare che Macron, forte del suo fascino e del successo personale riscosso in occasione della visita americana, possa convincere l’imprevedibile suo ospite a non compiere il gesto che riporterebbe il problema nucleare iraniano ai terribili momenti di tre anni fa. Sul problema dell’accordo di Parigi sul clima non si è nemmeno aperto uno spiraglio e non si aprirà, almeno fino a quando non cambieranno gli interessi economici di coloro che appoggiano Trump nel settore del carbone e del petrolio.
Quanto ai franchi e forti discorsi sui principi di libertà, di democrazia e di difesa del libero mercato che Macron ha magistralmente eseguito di fronte alle camere riunite temo che rimarranno solo discorsi, con l’ulteriore limite di essere stati portati avanti in un quadro di rapporti esclusivamente bilaterali, e quindi condizionati dagli enormi squilibri esistenti fra un singolo paese europeo e gli Stati Uniti d’America. Negli incontri di Washington non solo è mancata l’Unione Europea ma, con essa, tutti gli altri paesi europei. Per questo motivo l’incontro fra Trump e Macron è stato accolto con freddezza in Germania e con vero e proprio fastidio a Bruxelles.
Le tre ore dell’incontro Merkel-Trump sono state formalmente perfette, suggellate perfino da uno scambio di baci. Nessun risultato è stato tuttavia ottenuto per convincere Trump a rispettare l’accordo nucleare con Teheran e, soprattutto, nessun progresso si è verificato sui due principali temi di contenzioso che erano sul tavolo, cioè la diminuzione del surplus commerciale e l’aumento delle spese militari da parte germanica.
La Francia rimarrà quindi, per un tempo ancora non prevedibile e fino a quando non vi sarà qualche mutamento, il figlio prediletto degli Stati Uniti. Come ogni buon figlio mostrerà al padre la propria crescente personalità ma, nello stesso tempo, obbedirà sostanzialmente agli ordini del genitore. Io penso invece che gli Stati Uniti non abbiano bisogno di figli obbedienti ma di un fratello europeo che rinnovi e adatti alla nuova politica mondiale la lunga alleanza che ci ha garantito settant’anni di pace e di sviluppo.
Mi rendo tuttavia conto che tutto ciò non potrà avvenire fino a che ogni leader europeo continuerà ad andare a Washington in nome del proprio paese e non in rappresentanza dell’intera Europa. Solo quando ciò cambierà si potrà aprire un vero dialogo fra fratelli e non un colloquio fra padre e figlio. Con tutti i limiti di questo tipo di colloquio, qualsiasi siano le virtù e i difetti del padre e del figlio.