Niger: l’Europa torni a parlare all’Africa o il prossimo golpe sarà anche l’ultimo
La crisi in Niger – Come l’Europa deve tornare a parlare all’Africa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 29 luglio 2023
Dobbiamo seguire con molta attenzione quello che sta avvenendo in Niger, molta più attenzione rispetto a quella che abbiamo dedicato agli altri paesi del Sahel appartenenti all’ex impero francese, tutti devastati da una tragica povertà e da un crescente terrorismo. Di per se stesso il Niger, grande quattro volte l’Italia ma con solo 25 milioni di abitanti, potrebbe sembrare una pedina del tutto marginale nello scacchiere africano. Anche se non ha assunto ancora una carattere definitivo, la rivolta del Niger è invece un elemento potenzialmente decisivo per gli equilibri del Sahel.
Quando i colpi di stato, prima in Mali, quindi in Burkina Faso e infine in Repubblica Centroafricana, hanno progressivamente scalzato la presenza francese, la maggiore roccaforte rimasta alla Francia era proprio il Niger, dove sono state trasferite le truppe che per anni avevano tentato invano di controllare il Mali contro gli attacchi dei terroristi e contro la crescente ribellione popolare di fronte a un potere post-coloniale che controllava in modo capillare la vita politica, economica e culturale di tutto il paese.
Può essere un caso, ma certo assume un significato simbolico, che proprio nelle stesse ore in cui è stato messo in atto il “golpe” nel Niger, i nuovi governanti del Mali, sotto lo stretto controllo russo della Wagner, abbiano cancellato come lingua ufficiale il francese, finora totalmente dominante nel paese.
Ritornando al Niger, la sua missione nell’area subsahariana era proprio quella di riorganizzare non solo i militari e gli armamenti francesi in ritirata dal Mali, ma di ospitare il maggiore contingente americano dislocato in Africa e, quello che più interessa a noi, anche trecento militari italiani, il nostro maggiore numero operante in tutto il continente.
Tutta quest’attenzione verso il Niger non è solo dovuta al fatto che è ora il presidio militare più importante di tutta l’area. Esso è anche (e soprattutto) il paese che possiede le miniere che producono il 7% dell’uranio mondiale, provvedendo non solo alle necessità dell’armamento nucleare della Francia, ma anche al funzionamento delle centrali che forniscono la parte dominante dell’energia elettrica a tutto il paese, con una quota non certo trascurabile esportata anche in Italia.
Anche se durante una rivoluzione è prudente non dare giudizi definitivi, di certo è finito il periodo in cui, quando cominciava uno sconvolgimento nei paesi ex-coloniali, la Legione Straniera, che manteneva sempre una forza militare vicino al palazzo del potere (la così detta compagnie tournante), reagiva “proteggendo” il governo, in attesa di ricevere da Parigi le necessarie istruzioni su quale fazione appoggiare.
Nulla di ciò sembra accadere oggi, tanto è vero che i militari francesi hanno lasciato che il Presidente e la sua famiglia cadessero in mano dei ribelli. Inoltre non è nemmeno chiara la strategia americana mentre, ovviamente, i trecento soldati italiani rimangono rigorosamente chiusi in caserma, in attesa di accodarsi alle decisioni altrui.
Qualsiasi sia il futuro svolgimento di questo ennesimo “golpe” africano, è chiaro che si tratta di un ulteriore episodio di disgregazione dell’ex impero coloniale francese, ancora tenuto insieme da un controllo della politica, della burocrazia, dell’economia e della cultura dei paesi ex-coloniali che sta proseguendo nel suo lungo tramonto.
Ben difficilmente questo processo potrà interrompersi, almeno fino a quando la politica francese, appesantita da un’eredità del passato che non viene mai dimenticato e dalla sua limitata capacità d’azione, non lascerà il passo a una concorde presenza europea in Africa, riguardo alla quale l’Unione Europea rimane il maggior donatore, ma senza alcuna strategia unitaria e, quindi, senza alcun risultato concreto.
Nelle stesse ore in cui si sono snodati gli eventi in Niger, si svolgeva a San Pietroburgo il secondo summit fra la Russia e i paesi africani.
Un summit con 49 delegazioni di paesi africani anche se con la presenza di “solo” una ventina di capi di Stato e di Governo, di fronte ai 43 che si erano presentati nel primo appuntamento tenuto a Sochi nel 2019.
Non è tuttavia un caso che la Russia si sia impegnata, nonostante l’embargo, a fornire gratuitamente la necessaria quantità di grano a sei paesi africani, tra i quali proprio il Niger, il Mali e il Burkina Faso.
Il messaggio è chiaro: la Russia, nonostante la guerra di Ucraina e nonostante le tensioni che vi sono state nel recente passato fra Putin e Prigozhin continuerà la sua politica di espansione in Africa, inquadrando i mercenari della Wagner in una vera e propria “legione straniera russa” sotto il diretto comando di Mosca.
Ritengo inoltre assai improbabile che, nelle circostanze in cui si trovano, gli Stati Uniti vogliano aprire anche un problema africano, soprattutto se in Niger, come sembra probabile, dovessero prevalere i golpisti che non solo si oppongono alla Francia, ma anche a tutto il mondo occidentale. Non sarebbe ora di organizzare, come ha fatto perfino la Russia, un summit fra Africa ed Europa?
Un summit preparato da un intenso lavoro volto a garantire che si tratta di un’iniziativa veramente concreta e paritaria, nella quale sia chiara la rottura col passato e sia altrettanto chiaro che nessun paese pretende di avere un ruolo dominante.
O si preferisce aspettare il prossimo golpe, che sarà anche l’ultimo perché, nel Sahel, a fianco dell’occidente, c’è rimasto ben poco.