Per fare ripartire l’Italia serve un piano industriale, non dichiarazioni fantasiose
L’Italia che rallenta: serve un piano industriale per tallonare Berlino-Parigi
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 21 febbraio 2019
I dati sulla produzione industriale italiana di gennaio sono peggiori rispetto ad ogni aspettativa: la diminuzione è del 3,5% rispetto al mese precedente e del 7,3% rispetto al gennaio del 2018. Poiché i numeri sui nuovi ordini sono ancora più negativi è difficile prevedere che l’anno in corso sia un anno “bellissimo”, come è stato autorevolmente dichiarato pochi giorni fa.
Solo in parte questo peggioramento è dovuto alla congiuntura internazionale: il nostro paese ha infatti perso in velocità molto più degli altri membri dell’Unione Europea. Una caduta che si è molto accentuata negli ultimi mesi. Tutto questo, di conseguenza, obbligherà a robuste correzioni nella politica fiscale e nella spesa pubblica, date le conseguenze che la intervenuta crisi della nostra economia provocherà sul rapporto debito/PIL. A partire dai prossimi giorni questo tema non potrà più essere eluso. Oggi tuttavia vorrei limitarmi ad una riflessione sulla politica industriale da adottare perché questa caduta, che tutti speriamo temporanea, non si trasformi in una catastrofe permanente.
La prima decisione da prendere è quella di evitare che il nostro sistema industriale si distacchi da quello degli altri paesi europei. Proprio mentre uscivano le nostre statistiche negative si svolgeva infatti una riunione fra i ministri dell’economia francese e tedesco per elaborare una politica industriale comune, con lo specifico obiettivo di costruire imprese europee capaci di affrontare il mercato globale, di accelerare lo sviluppo e l’adozione di tecnologie d’avanguardia, di applicare all’industria gli aspetti innovativi dell’intelligenza artificiale e di aiutare le trasformazioni di settori di importanza vitale, a partire da quello automobilistico. Il che pone le premesse perché la politica industriale europea sia sempre più guidata da Francia e Germania, con un’evidente emarginazione dell’Italia, che pure rimane ancora il secondo paese industriale dell’Unione Europea per fatturato e per capacità di esportazione. D’altra parte, litigando con tutti, è più facile rimanere soli.
Alla necessaria cooperazione con gli altri paesi, è urgente accompagnare una politica industriale nazionale che, dopo i provvedimenti presi dall’ex Ministro Calenda, è scomparsa dal “calendario”. Ci si limita ad inseguire con le pur necessarie misure-tampone le aziende già in crisi ma nulla è in agenda per riorganizzare i settori riguardo ai quali sono in corso radicali trasformazioni. Prendiamo come esempio l’automobile, che è stata tra temi principali del colloquio franco-tedesco. Un settore nel quale abbiamo già perduto tanta presenza, riducendo la nostra produzione di auto a meno di un terzo di quello che era nel periodo di punta fino a cadere, negli ultimi mesi, in una crisi ben superiore a quella dei concorrenti stranieri nei confronti dei quali siamo tuttavia consistenti e attivi fornitori di componenti.
Oggi, anche se con ritmo meno veloce di quanto alcuni prevedevano, la diffusione dell’auto elettrica sta prendendo piede ovunque, comportando un radicale cambiamento di tutto quello che sta sotto al cofano: non più motori a combustione interna ma batterie. Non più il prevalere (anche se già indebolito) della meccanica ma il dominio dell’elettronica.
Questa evoluzione ci trova del tutto impreparati, soprattutto nei confronti delle batterie, il vero e proprio motore delle nuove automobili. Le spese di ricerca e gli investimenti produttivi in questa direzione sono del tutto trascurabili e non vi è alcuna strategia pubblica (e nemmeno alcuna discussione) sul come preparare il nostro paese alle nuove tecnologie in un campo in cui un tempo eravamo protagonisti e rispetto al quale non ci stiamo nemmeno preparando ad un ruolo di spettatori. Si può certamente obiettare che le battaglie nei settori caratterizzati da produzioni di massa sono già perdute, ma ciò non tiene conto del fatto che, in ogni caso, anche nei campi in cui dominano le economia di scala, esistono sempre aspetti e interstizi particolari nei quali le imprese minori possono crescere e affermarsi con successo, come è sempre avvenuto nell’economia italiana, dove le grandi imprese non sono certo dominanti. L’esempio portato avanti per l’automobile riguarda ovviamente quasi tutti i settori produttivi, dalla chimica all’alimentare, nei quali anche le imprese minori debbono essere aiutate ad operare in rete con le strutture pubbliche e fra di loro. Occorre cioè una politica industriale. Una politica verso l’estero ed una politica nazionale di cui non soltanto non si vede traccia ma della quale il governo non parla con nessuno, e forse nemmeno con se stesso. In questa situazione già il solo prendere atto della gravità della situazione può essere un primo passo per preparare un futuro “bellissimo”, anche se non sarà per quest’anno.