Primavera araba: l’occasione mancata per stabilizzare la Tunisia
La Primavera araba – L’occasione mancata per stabilizzare la Tunisia
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 03 giugno 2023
Sono bastate tre settimane di cattivo tempo e di mare grosso nel Mediterraneo per cancellare dai nostri media il problema tunisino. Come se la Tunisia fosse scomparsa insieme alla temporanea caduta dell’emigrazione. Si tratta invece di un paese estremamente importante per il futuro equilibrio del Mediterraneo e, in particolare, per noi italiani, in conseguenza della vicinanza geografica, dei nostri intensi rapporti economici e culturali e del flusso di emigranti.
Solo 140 Km separano infatti la Sicilia dalla Tunisia e l’Italia ha ora addirittura il primato nei rapporti commerciali con la Tunisia, anche se la Francia conserva un ruolo primario in tanti settori, a partire da quello finanziario fino alle profonde relazioni culturali.
La Tunisia ci offre una chiave interpretativa estremamente importante per approfondire il problema dei nostri legami con l’intera sponda sud del Mediterraneo e per analizzare le responsabilità e le debolezze della recente politica europea in proposito.
Non possiamo infatti dimenticare come la promettente (e ora defunta) primavera araba era proprio cominciata in Tunisia nel gennaio 2011 come rivolta per l’uccisione di un giovane ambulante, accendendo in tutti i paesi vicini manifestazioni popolari che sembravano condurre verso un progressivo e generale processo di democratizzazione.
I grandi paesi democratici hanno risposto con un unanime coro di approvazione, ma ben poco hanno fatto per consolidare questo processo che, per avere successo, aveva bisogno non solo di un enorme aiuto economico, ma anche di una progressiva assistenza nella costruzione delle istituzioni politiche, sociali e culturali che guidano il cammino verso la democrazia.
Questo non è avvenuto nel caso delle primavere arabe e il già difficilissimo processo di democratizzazione si è interrotto ovunque.
L’ultimo paese ritornato ad un governo autoritario è stato proprio la Tunisia. Trionfalmente eletto dopo una campagna elettorale fondata sulla lotta contro la corruzione, il nuovo presidente Kais Saied, come è avvenuto quasi con regolarità in molti paesi africani, ha progressivamente smantellato la pur imperfetta democrazia, eliminando ogni possibile opposizione, sia nelle istituzioni che nella società civile, a cominciare dai magistrati fino ai giornalisti.
Il processo di eliminazione di ogni traccia democratica ha avuto il suo culmine all’inizio di Aprile di quest’anno, quando, nonostante i suoi 81 anni, è stato incarcerato Rached Ghannouchi, leader del maggiore partito di opposizione.
Come capita in questi casi, il Presidente ha tentato di rianimare la propria popolarità con una campagna di difesa dell’integrità nazionale contro gli emigranti provenienti dai paesi del Sahel, che eserciterebbero “un’azione criminale volta a cambiare la composizione etnica e demografica della Tunisia”. Una politica che non sembra avere avuto l’effetto di avvicinare il paese reale al governo, tanto è vero che solo l’11% degli aventi diritto si è presentato a votare in occasione delle elezioni parlamentari dello scorso gennaio.
Nel frattempo l’economia è entrata in una profonda crisi, resa più grave da una forte penetrazione del Covid e, successivamente, dalla guerra di Ucraina, che ha fatto impazzire i prezzi e causato ondate di scarsità dei prodotti alimentari fondamentali, a cominciare dalla farina e a finire con lo zucchero, mentre il tasso di disoccupazione è salito alle stelle, arrivando intorno al 40% delle classi giovanili.
Si è creata quindi una situazione purtroppo abbastanza abituale nelle circostanze che abbiamo descritto.
Da un lato il paese, per evitare la bancarotta, con tutte le conseguenze del caso, ha bisogno di un cospicuo aiuto da parte del Fondo Monetario Internazionale che, tuttavia, è disposto ad intervenire solo se saranno messe in atto le riforme necessarie per costruire un minimo di democrazia. Naturalmente il Presidente Saied, appellandosi ancora più fortemente all’identità nazionale, si rifiuta di adempiere alle condizioni poste dal FMI.
Alla rottura con molti paesi africani si accompagna quindi una crescente tensione con i paesi che, tradizionalmente, hanno sempre avuto i rapporti più stretti con la Tunisia.
Dopo tanti anni di speranze e di delusioni siamo ritornati ad una situazione non certamente migliore di quella che ha provocato la rivoluzione giovanile del 2011.
Per noi europei si aggiunge la preoccupazione che la Tunisia rafforzi i propri legami con la Cina e la Russia, come è avvenuto da parte dei paesi con essa confinanti, a cominciare dalla Libia.
Naturalmente il braccio di ferro fra la Tunisia e il Fondo Monetario continuerà nei prossimi mesi con uno sperabile sforzo di mediazione da parte dell’Unione Europea, della Francia, dell’Italia e, in modo più defilato, degli Stati Uniti.
A sua volta la Tunisia conterà sugli introiti della prossima stagione turistica per prolungare le proprie capacità di resistenza, mentre il cosiddetto fronte dei paesi democratici insisterà perché almeno qualche riforma sia portata avanti.
Nessuno è tuttavia in grado di garantire che la Tunisia possa incamminarsi verso il progresso politico ed economico che era stato l’obiettivo della primavera araba.
Credo comunque che debba attribuirsi anche alla mancanza di una politica europea se, nel nostro Mediterraneo, alla primavera non è seguita l’estate, ma un rigido inverno.